Lincoln, un film monumentale come una statua di piazza

di Gianfranco Angelucci

Il grande Spielberg sonnecchia e noi con lui. Alla proiezione pomeridiana delle quattro una platea gremita non certo di adolescenti si assopiva volentieri. Nell’intervallo della lunga maratona di due ore e mezza, un distinto lupo grigio confidava a sua moglie un po’ sgomento: “Ahò, ma è un film pallosissimo, io me ne vorrei annà, è proprio mortale!” La signora, compassata ma comprensiva, lo invitava a farlo, rassegnandosi a sacrificarsi da sola, immagino per l’onore della famiglia. Capisco che Abramo Lincoln in America sia un padre, anzi il Padre della Patria, circonfuso d’amore oltre che di ammirazione e di rispetto, ma l’approccio del regista alla nobile impresa forse risente di troppo rigore, fedele alla lettera a Team of Rivals, il romanzo ispiratore. La ricostruzione storica d’ambiente è maniacale, al pari dell’interpretazione di Daniel Day-Lewis che, intimidito non meno del regista, sembra paralizzato dentro un’icona marmorea, con una sola espressione, per non discostarsi dal dipinto da museo. Quindi la storia, tutta dialogata a parte poche sequenze della spaventosa guerra civile americana con il massacro dei soldati nel fango, arranca nonostante i sapienti tagli di luce, le atmosfere sature di destino, e le battute del protagonista che sembra fosse assai spiritoso. Quando qualcuno gli chiede di commentare la decisione di un lord inglese di tenere il ritratto di George Washington nel cesso, il Presidente risponde arguto: “Mi pare il posto più adatto dal momento che è noto come ogni inglese si caghi sotto vedendo Washington.” Giochi barbarici e gustosi tra cugini di sangue. Altri momenti sono intensi per il simbolismo che racchiudono; una folla plaudente chiede a Lincoln di issare la bandiera americana e lui si mette volentieri alla manovella: “Se la macchina funziona ce la farò, ma poi toccherà a voi mantenerla in alto.” Allampanato, curvo, con la chioma indomabile, e una coperta perennemente sulle spalle per combattere il freddo, il 16° presidente degli Stati Uniti (in italiano con la voce accattivante di Pierfrancesco Favino) non deve solo escogitare ogni furbizia procedurale per far passare il 13° Emendamento alla Costituzione ed emancipare i neri dalla schiavitù, ma è costretto a fronteggiare il più spaventoso spargimento di sangue della sua nazione divisa tra nord e sud, con centinaia di migliaia di morti; tra i quali non vorrebbe annoverare anche suo figlio Robert ansioso di arruolarsi. La moglie Mary Todd (Sally Field) lo tormenta tra minacce e ricatti viscerali legati alla sua depressione cronica: “Avrei dovuto farti chiudere in manicomio!” Le urla il marito al colmo dell’esasperazione e dello sconforto. Ma poi conclude: “Non posso portare anche il tuo dolore sulle spalle, aiutami a non crollare.” Alla fine per pochi voti strappati all’opposizione mercanteggiando senza scrupoli, e con una dichiarazione causidica del grande elettore Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones) il quale chiede per i neri la sola “parità davanti alla legge” sfuggendo ad altre categorie più compromettenti, l’Emendamento passa con il voto anche del presidente del Congresso: “Non è consuetudine che il presidente voti, ma oggi lo farò, perché questa è la Storia!” Ed è naturale che un fremito si agiti nel petto ad ascoltare certe frasi fatali. Tre mesi dopo uscendo dal teatro Lincoln muore ammazzato per mano di un fanatico; paga col proprio sangue, come molti altri presidenti americani, la nascita e la difesa della nazione. Qualcuno ha detto: se fosse un documentario di History Channel il “Lincoln” di Steven Spielberg sarebbe un capolavoro. Forse lo è lo stesso, una statua di piazza con addosso il luccichio dorato di 13 nomination all’Oscar.

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