di Gianfranco Angelucci
Siamo quasi tutti cresciuti a dosi massicce di Jean Valjean, il protagonista dell’immenso romanzo di Victor Hugo il quale, raccontando la storia dell’ergastolano ingiustamente perseguitato, realizza l’affresco più potente e realistico della Parigi ottocentesca. Nelle antologie scolastiche si leggevano i brani più emozionanti: il possente galeotto che con la sua forza erculea rialza da solo un carro salvando l’uomo che ne è rimasto schiacciato; Gavroche, il monello dei bassifondi che guida l’insurrezione contro il potere corrotto e muore falciato dalla fucileria; la fuga di Valjean attraverso l’interminabile dedalo delle fogne, per portare in salvo Marius, il ragazzo amato dalla sua Cosette; l’ombra sinistra di Javert, il poliziotto che perseguita Valjean per pura ostinazione da sbirro e sarà travolto dal malinteso senso della legge in conflitto con le ragioni del cuore; la sfortunata Fantine, prostituta per disperazione, che muore di stenti affidando la sua piccola all’insperato benefattore; Cosette, al quale il padre adottivo in punto di morte rivela la vera storia del loro rapporto.
Adolescenti trepidavamo sulle pagine dello scrittore venerato in Francia come un semidio. Con le lacrime agli occhi leggevamo del vescovo di Digne che offre ricetto a Jean Valjean e ne viene derubato; ma non permetterà ai gendarmi di arrestarlo, affermando che gli oggetti d’argento sono un suo dono e aggiungendovi anzi due preziosi candelabri. Un gesto così carico di carità cristiana da trasformare il derelitto in un sant’uomo, proteso soltanto, una volta divenuto ricco, ad alleviare la dura sorte dei miserabili.
Al cinema Jean Valjean ha avuto la faccia insostituibile di Jean Gabin, e molti anni dopo anche la grinta di Jean Paul Belmondo. La storia melodrammatica, riadattata in un musical, in trent’anni ha totalizzato 60 milioni di spettatori tra West End londinese e Broadway. Da tre decenni i produttori cinematografici tentano di farne un film musicale; adesso ci sono riusciti nel Regno Unito, chiamando alla regia Tom Hooper, raffinato realizzatore di “Il discorso del re”. La torta lievita ma gli ingredienti sono male assortiti. I ruoli dei due protagonisti vengono invertiti: Hugh Jackman, l’attore-cantante che interpreta Jean Valjean è poco affascinante benché veterano del genere, e al carismatico Russel Crowe è stato assegnato il personaggio di Javert che non gli calza. Cosette è sbiadita, Anne Hathaway lanciatissima verso l’Oscar nel ruolo della madre, ‘recita la parte’ con l’aiuto degli ottimi addetti al trucco; il piccolo Gavroche è un ritrattino oleografico per turisti di Montmartre; gli altri sono pregevole tappezzeria riciclata dal palcoscenico originario. Tranne Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen, che tratteggiano con buffoneria da teatranti la coppia scellerata dei Thénardier rotta a ogni infamia. La musica composta da Claude-Michel Schönberg, a dirla tutta, non risulta trascinante, non c’è una sola canzone che rimanga impressa nella memoria. Però, certo, la confezione è poderosa, si parla di settanta milioni di dollari sapientemente impiegati (trecentocinquanta già incassati); ambientazione, scenografie e costumi degni dell’inappuntabile scuola britannica. Effetti speciali mirati a épater les bourgeois, come il tuffo vertiginoso del suicida Javert nei gorghi della Senna. Si rimane a tavola per due ore e quaranta minuti di servizio eccellente, in attesa del dolce che non arriva mai.