I registi morti nel 2015

10. Gene Saks (New York, 8 novembre 1921 – East Hampton, 28 marzo 2015) È stato un regista cinematografico e teatrale, vincitore di tre Tony Award. A partire dai tardi anni quaranta cominciò una intensa collaborazione con il regista teatrale Neil Simon; insieme scrissero varie opere teatrali tra cui: La strana coppia (The Odd Couple), 1965 – California Suite, 1976 – Jake’s Women, 1982 – Biloxi Blues, 1985. La strana coppia venne rappresentata dapprima in teatro, successivamente al cinema con la coppia Walter Matthau e Jack Lemmon. Anche California Suite ebbe una trasposizione cinematografica, nel 1978, in cui recitarono attori come Jane Fonda, lo stesso Matthau, Maggie Smith e Michael Caine. Nel 1969 diresse una frizzante commedia, Fiore di cactus, con protagonista ancora Matthau, Goldie Hawn (che vinse il premio Oscar come miglior attrice non protagonista) e Ingrid Bergman. Nel 1974 diresse Lucille Ball e la moglie Beatrice Arthur in un fiasco commerciale, il musical Mame. Da ricordare Cin cin (1991) con Julie Andrews e Marcello Mastroianni.

9. Gian Vittorio Baldi (Lugo, 30 ottobre 1930 – Faenza, 23 marzo 2015) Nel 1954 inizia a lavorare alla RAI, dove vi rimane fino al 1958. Durante questo periodo realizza una serie in dieci episodi dal titolo Cinquantanni – Storia d’Italia dal 1898 al 1948. Tra il 1958 e il 1960 vince due premi alla Mostra del cinema di Venezia nel settore dei cortometraggi. Nel 1960 fonda l’Istituto Italiano del Documentario. Nel 1962 esordisce nel lungometraggio e fonda la «IDI Cinematografica». Tra i titoli prodotti, Cronaca di Anna Magdalena Bach (1967), Porcile di Pasolini (1969) e Quattro notti di un sognatore di Robert Bresson (1971). Durante la sua carriera, ha realizzato una trentina di film e circa 200 tra cortometraggi e documentari. Ha collaborato dal 1977 al 1980 al DAMS di Bologna. Trascorre gli ultimi anni a Faenza, dove fonda nel 1999 Hypermedia, un istituto di ricerca e formazione sul linguaggio visivo.

8. Sergio Sollima (Roma, 1 aprile 1921 – Roma, 1 luglio 2015) Dopo il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma svolse attività di critico cinematografico. Esordì negli anni 50 come assistente di Domenico Paolella e autore teatrale. Amico di Sergio Leone, negli anni sessanta fu uno dei più noti specialisti del genere Spaghetti western, con una particolare propensione alla costruzione approfondita dei personaggi (ad esempio Tomás Milián – Cuchillo in La resa dei conti). I suoi western erano considerati “politici”, in quanto caratterizzati da tematiche sociali, con riferimenti non nascosti alle lotte terzomondiste e a Che Guevara, cui è ispirato il personaggio di Cuchillo. Firmò anche alcuni lungometraggi con lo pseudonimo di Simon Sterling (Agente 3S3. Massacro al sole, del 1966, uscito all’estero come Hunter of the Unknown). Dagli anni settanta, dopo alcune opere noir (Città violenta del 1970, Il diavolo nel cervello del 1972 e Revolver del 1973), si dedicò con successo alla realizzazione di sceneggiati televisivi (Sandokan, Il corsaro nero, il non realizzato film su Tremal Naik e Il figlio di Sandokan).

7. Jack Gold (Londra, 28 giugno 1930 – 9 agosto 2015) Ha frequentato l’University College London. Dopo aver lasciato UCL, ha iniziato la sua carriera come montatore poi documentarista freelance. Ha diretto molti film per la televisione con John Hurt e Anthony Hopkins. Ha anche diretto film come Who? L’uomo dai due volti (1973) L’uomo venerdì (1975) La battaglia delle aquile (1976) Il tocco della medusa (1978) e Fuga da Sobibor (1987).

6. Claudio Caligari (Arona, 7 febbraio 1948 – Roma, 26 maggio 2015) Nato come documentarista inizia a farsi conoscere negli ambienti del cinema indipendente, intorno alla metà degli anni settanta. Il suo lavoro, prende spunto sia dalle problematiche delle realtà giovanili disagiate sia dall’impegno politico, negli anni del nascente Movimento del ’77. Contemporaneamente al lavoro come documentarista, lavora come aiuto regista per Ferreri, Bellocchio e Pasolini. Nel 1983 esce il suo primo lungometraggio, Amore tossico. Il cast è costituito da persone prese dalla strada, senza l’apporto di alcun attore professionista. Il periodo di lavorazione fu molto travagliato e le riprese si svolsero in due anni differenti, il 1982 e il 1983. Amore tossico venne presentato, come opera prima, alla 40ª Mostra di Venezia del 1983, aggiudicandosi il Premio speciale nella Sezione De Sica.  Negli anni successivi, lavora a sceneggiature che, per una serie di circostanze, non riesce a realizzare: “La ballata degli angeli assassini”, “Dio non c’è alla Sanità” (la storia di un prete anti-camorra) e “Suicide special”, una storia di scontro tra bande, in una Roma notturna popolata di balordi, prostitute e travestiti. Il ritorno dietro la macchina da presa avviene 15 anni dopo. È il 1998 quando esce L’odore della notte, film ambientato tra la fine degli anni settanta e gli inizi del decennio successivo, che narra le vicende di una banda di rapinatori provenienti dall’estrema periferia romana e specializzata in colpi messi a segno nei quartieri alti della capitale. Ispirato alla Banda dell’arancia meccanica, un gruppo di rapinatori che, dal 1979 al 1983, gettò nel terrore la Roma-bene, con questo film Caligari cerca di riprendere il discorso avviato dal cinema poliziottesco italiano degli anni settanta, declinato attraverso le ambizioni di ricerca sociale e stilistiche tipiche dell’autore. Il film venne presentato a Venezia. A febbraio del 2015, inizia le riprese di Non essere cattivo. Il film è un’ideale continuazione di Amore tossico: una storia di amicizia e caduta negli inferi, nella periferia romana degli anni ’90, tra rapine, droghe sintetiche e la vita quotidiana di un gruppo di giovani di borgata. Malato da tempo, il 26 maggio 2015, a 67 anni, Caligari muore appena terminato il montaggio.

5. Vicente Aranda (Barcellona, 9 novembre 1926 – Madrid, 26 maggio 2015). Nato a Barcellona (della cui Scuola è stato esponente di spicco) e fuggito nel dopoguerra in Venezuela, Aranda ebbe in Victoria Abril la sua musa principale (insieme girarono 12 titoli, tra cui Cambio de sexo, Si te dicen que caí, La muchacha de las bragas de oro, Libertarias, le due parti di El Lute e Tiempo de silencio) e nella montatrice (e sposa) Teresa Font un’alleata incondizionata. Nelle tematiche torbide che mostravano le passioni più complesse dell’essere umano, ha individuato i suoi argomenti prediletti, con il connubio sesso e morte sempre presente. Nella sua biografia spicca il premio Goya del miglior regista per Amantes (1992).

4. Wes Craven (Cleveland, 2 agosto 1939 – Los Angeles, 30 agosto 2015). Si appassiona di cinema e apprende le tecniche essenziali del montaggio. Gira il suo primo film nel 1972 (L’ultima casa a sinistra) opera che rinnegherà in seguito pur diventando un cult. Il successo si ripete cinque anni più tardi con Le colline hanno gli occhi, lungometraggio che lo lancerà nel panorama del genere horror, genere di cui diventerà maestro ed ispiratore successivamente. La grande fama gli giunge con l’invenzione di Freddy Krueger, folle assassino di Nightmare (1984). Il modo originale con cui uccide le sue vittime (agisce utilizzando gli incubi delle giovani prede) lo fa diventare un franchising di successo. Craven si oppone inutilmente a quello che considera il massacro della sua creatura, ma l’aver ceduto i diritti gli impedisce qualunque rivendicazione. Alterna poi opere interessanti Sotto shock (1989) a grossi flop (Vampiro a Brooklyn 1995), per tornare sulla cresta dell’onda con Scream (1996). Questa volta mantiene il controllo anche degli episodi successivi ricavandone altrettanti trionfi al botteghino.

 

3. Chantal Akerman (Bruxelles, 6 giugno 1950 – Parigi, 5 ottobre 2015) Nacque in una famiglia di ebrei polacchi emigrati in Belgio; i nonni materni e sua madre furono deportati ad Auschwitz. Nel 1971, dopo la realizzazione di un cortometraggio intitolato L’enfant aimé ou je joue à être une femme mariée, partì per New York, dove iniziò a frequentare autori sperimentali come Andy Warhol e Stan Brakhage. Nel 1973 tornò a vivere a Parigi, dove nel 1974 girò il primo lungometraggio, Je, tu, il, elle, dal quale trapela l’influenza dello sperimentalismo americano nell’appiattimento ed il distacco con la quale vengono mostrate scene di sesso esplicito, scelta che elimina volutamente del tutto ogni connotazione pornografica. Nel 1975 realizzò il suo secondo lungometraggio, Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, la descrizione della disperata ripetitività della vita di una casalinga dedita occasionalmente alla prostituzione per mantenere se stessa ed il figlio adolescente. Da molti considerato il suo vero capolavoro, il quotidiano francese “Le Monde” ed il quotidiano statunitense “New York Times” nel 1976 lo classificarono come “il più grande capolavoro femminile della storia del cinema”. Nel 1976 tornò a New York per la realizzazione di News from home, poi ancora nel 1988 per Histoires d’Amérique e nel 1996 per la commedia romantica Un divano a New York, con William Hurt e Juliette Binoche. Nel 2006 trasformò un documentario su Israele che le era stato commissionato in un progetto più personale, Là-bas. Girato a Tel-Aviv, il film è una serie di inquadrature fisse della Akerman nel suo appartamento e di ciò che si vede dalle finestre, narrato dalla voce fuori campo della regista stessa che commenta l’esperienza lasciandosi andare a digressioni sull’isolamento, la solitudine, il tempo e l’ebraismo.

2. Francesco Rosi (Napoli, 15 novembre 1922 – Roma, 10 gennaio 2015) Facendo propria la lezione di Luchino Visconti, di cui era stato aiuto regista, è prevalsa in lui l’attenzione al contesto e al valore del documento storico che, nel suo cinema (Salvatore Giuliano, 1962; Le mani sulla città, 1963; Il caso Mattei, 1972; Cadaveri eccellenti, 1976), ha assunto valenze drammaturgiche insolite. Numerosi i riconoscimenti ricevuti dal regista. Oltre a due Nastri d’argento per la regia (nel 1963 per Salvatore Giuliano e nel 1981 per Tre fratelli), ha vinto tre David di Donatello per la miglior regia nel 1976 con Cadaveri eccellenti, nel 1979 con Cristo si è fermato a Eboli e nel 1981 con Tre fratelli; due per il miglior film nel 1985 con Carmen (1984) e nel 1997 con La tregua, cui si è aggiunto nel 1988 un David speciale alla carriera. Nel 1958 con La sfida aveva conquistato il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e nel 1963 il Leone d’oro per Le mani sulla città. A livello internazionale aveva ottenuto nel 1962 a Berlino l’Orso d’argento per la regia con Salvatore Giuliano e nel 1972 al Festival di Cannes la Palma d’oro con Il caso Mattei mentre nel 1979 Cristo si è fermato a Eboli era stato premiato al Festival di Mosca. Cresciuto in una famiglia della buona borghesia partenopea, nel 1946 si trasferì a Milano e poi a Roma dove lavorò come figurante nel cinema e come attore di rivista. Nei primi anni Cinquanta fu aiuto regista di Matarazzo, Emmer, Ettore Giannini (per Carosello napoletano, 1954) e di Visconti; partecipò alla sceneggiatura di Bellissima (1951) di Visconti e di Processo alla città (1952) di Luigi Zampa. Esordì nel lungometraggio nel 1958 con La sfida, resoconto delle fortune e delle disgrazie di un giovane guappo napoletano. Nell’opera successiva, I magliari (1959), seppe tenere a bada l’esuberanza di Alberto Sordi proponendo un quadro convincente del fenomeno dell’emigrazione italiana in Germania. Ma fu con Salvatore Giuliano che sconvolse le convenzioni del film di finzione. L’eroe protagonista, che compare per la prima volta già cadavere, viene visto da lontano (si scorge un impermeabile bianco e un binocolo), oppure risulta evocato come sgradito ospite al processo di Viterbo. Cuore del film è un’analisi del potere, in particolare il potere mafioso collegato a quello politico, nella Sicilia del secondo dopoguerra; in tal modo una vicenda appartenente al passato viene sospinta verso il presente, diventando momento di dibattito e storia attuale. In Le mani sulla città, mentre viene posto in scena un agitato andirivieni di uomini di potere, con inserti filmati sul degrado metropolitano di Napoli ‒ l’aspetto più evidente del film ‒, disegna tre figure di grande risalto psicologico: il costruttore edile Edoardo Nottola (Rod Steiger), il mellifluo Maglione (Guido Alberti) e il grande tessitore De Angeli (Salvo Randone). Questa tipologia di caratteri viene arricchendosi di personaggi di prepotente personalità, intenti a tessere una rete di intrighi in Cadaveri eccellenti. Con Il caso Mattei si passa a un personaggio storico. Per raccontare le battaglie, le sfide e la drammatica fine di un personaggio scomodo, in un’inchiesta che anticipa stilemi poi tipici del reportage televisivo nei suoi esiti più riusciti e maturi, adotta modi espressivi che rimandano alla frantumazione di un’ordinata cronologia già sperimentata in Salvatore Giuliano. La stessa tecnica viene ripresa nella prima parte di Lucky Luciano (1973), mentre la seconda parte del film rispetta l’ordine cronologico e traccia il ritratto, reso intenso dall’interpretazione di un attore come Gian Maria Volonté, capace di aderire perfettamente al ruolo, di un uomo tranquillo dallo sguardo freddo che vive da pensionato, ma che in realtà è un capomafia destinato a essere ammazzato. Il cinema di Rosi appare dominato da personaggi di forte temperamento e aggressività, che sembrano togliere qualunque spazio alla gente semplice e mite, alla quale però il regista rivolge la propria attenzione in particolari occasioni: per es., ripercorrendo il percorso avventuroso e individualista di un ragazzo spagnolo che diventa torero e idolo di un ambiente dove tutto si risolve nello spettacolo (Il momento della verità, 1965), oppure riprendendo gli stilemi della favola (C’era una volta…, 1967),  o prestando ascolto al coro dei vinti in una revisione critica del mito della Grande guerra (Uomini contro, 1970), oppure infine immergendosi nella civiltà contadina (Cristo si è fermato a Eboli) oggetto di un’affascinante interpretazione anche in un film come Tre fratelli, analisi di tre generazioni indissolubilmente legate alla terra degli avi. Il tema della responsabilità collettiva torna in Cronaca di una morte annunciata (1987) dal romanzo di García Márquez, traspare in Dimenticare Palermo (1990) e, infine, si impone nettamente nell’invito a non dimenticare che percorre La tregua, film ispirato al libro di Levi per il quale trova un’articolazione narrativa di estremo rigore sintattico. Affidandosi al doppio registro del ricordo e della riflessione sulla tragica esperienza dei lager nazisti, salda insieme elementi appartenenti a codici diversi: la nota scherzosa e la commozione, la dilatazione di carattere epico (l’arrivo al lager dei quattro soldati russi, quasi cavalieri dell’Apocalisse che infrangono la cortina di nebbia) e la registrazione degli stati d’animo che precedono e accompagnano il ritorno a casa dei sopravvissuti.

1.Manoel de Oliveira (Porto, 11 dicembre 1908 – Porto, 2 aprile 2015) Massimo rappresentante del cinema portoghese ma anche uno dei cineasti europei più prestigiosi e originali, è il creatore di un mondo attraversato da echi letterari, richiami alla storia e alla tradizione culturale lusitana, accensioni melodrammatiche, ironie filosofiche, metafore ‘teatrali’ che riflettono spesso le ambiguità tra arte e vita, in un rapporto continuo tra la carica simbolica della parola e del dialogo e la densità delle immagini. Proveniente da una famiglia di industriali, abbandonò presto gli studi. Dopo aver recitato in alcune pellicole, pur continuando a occuparsi dell’azienda di famiglia, realizzò il documentario Douro, faina fluvial (1931). In Aniki Bóbó (1942), più che le influenze del Neorealismo, sono la pietà e la crudeltà nella rappresentazione di un’infanzia tradita e illusa a emergere nella storia di disperati amori infantili. Al film fece seguito un lungo periodo di inattività, solo nel 1956 ritornò confermando l’attitudine documentaristica (O pintor e a cidade, 1956; O pão, 1959) e la tendenza all’apologo tra allegoria e realismo come in A caça (1964), dove la furia disperata di due ragazzi durante una battuta di caccia ha un esito tragico e beffardo. Questa fase del lavoro si compendiò in un capolavoro come Acto de primavera (1963), dove la sacra rappresentazione della Passione di Cristo nel villaggio contadino di Curalha racchiude un senso altissimo della trascendenza, continuamente incarnato nella concretezza di volti, corpi, gesti e suoni radicati nella tradizione millenaria della fede popolare. Nel 1972 tornò a dirigere O passado e o presente (Passato e presente), primo film della ‘tetralogia degli amori frustrati’, una spietata e claustrofobica rappresentazione della borghesia, intesa come ‘luogo’ metafisico di intrecci tra l’esercizio del potere e la forza dei sentimenti. In Benilde ou a Virgem Mãe (1975), la densità allegorica che pervade un interno familiare allude al mistero di una gravidanza immaginaria; in Amor de perdição (1979), la dilatazione ardita dei tempi e dei piani fissi, il peso specifico dei dialoghi come concrezione drammaturgica delle cadenze narrative ottocentesche, il flusso musicale delle sequenze che conservano l’enfasi melodrammatica e sono però ‘congelate’ nel rigore formale, incastonano la storia di un amore ostacolato dalla rivalità tra due famiglie; con Francisca (1981), si rivela la lucidità intellettuale e formale dello stile in un film che trasporta la ‘forma chiusa’ della classicità, la potenza strutturale del canone ‘romanzesco’, la modernità di uno sguardo ‘critico’ tanto sulla storia e sulle classi sociali quanto su una psicologia femminile, verso un’originalità assoluta di impaginazione filmica, fatta di precisione tersa dell’inquadratura, di gestualità stilizzata, di espansione della durata interna della ripresa, che rende con grande acutezza l’estenuazione decadente, il cinismo, la disperazione e il masochismo dell’amour fou dei protagonisti. Negli anni Ottanta è seguita una trilogia in cui si è rivelata costante la dialettica formale tra il palcoscenico e lo schermo, laddove l’impianto teatrale fa da perno per uno scavo del linguaggio filmico nelle sue modalità di durata dell’inquadratura, di montaggio interno, di frontalità dei campi e di strutturazione del piano sequenza. Così Le soulier de satin, noto anche come O sapato de cetim (1985) risulta una lunga meditazione su un amore impossibile imbrigliato nei meccanismi fatali della storia; in Mon cas (1986) la metafora del destino umano viene giocata su un palcoscenico, durante la prova di una commedia; mentre in Os canibais (1988; I cannibali) nella cornice di un teatro d’opera, in un intrigo gotico e fantastico, si assiste a una variazione ‘crudele’ del tema di Don Giovanni. Nel decennio successivo ha conosciuto una seconda giovinezza creativa girando molti film, ogni volta sorprendendo per originalità intellettuale e ricerca linguistica. Da Non, ou a vã glória de mandar (1990; No, o la folle gloria del comando), amara allegoria politica sulla storia del suo Paese, a A divina comédia (1991; La divina commedia), premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia, ironica, misteriosa e malinconica variazione su temi esistenziali e religiosi in cui l’atmosfera dostoevskijana si accompagna alle stralunate fantasie degli ospiti di un asilo per alienati. Da una personale rilettura della flaubertiana Madame Bovary in Vale Abraão (1993; La valle del peccato), dove la fluvialità della durata e l’incastro dei temi filosofici immettono in un mondo in cui la natura quasi fordiana del paesaggio e l’interiorità del sentimento si specchiano l’una nell’altra, a O convento (1995; I misteri del convento), un pastiche di temi faustiani e citazioni shakespeariane, in cui risalta soprattutto l’aria arcana e diabolica del labirintico convento dove è ambientato il film. Da Party (1996) in cui un’isola e una stanza da pranzo racchiudono i personaggi in una specie di ‘luogo magico’ dove il gesto casuale, l’allusione diventano l’eco di un mistero non svelato, a Viagem ao princípio do mundo (1997; Viaggio all’inizio del mondo), film pervaso dalla nostalgia per la terra d’origine e in cui un malinconico Marcello Mastroianni diventa il poetico alter ego del regista. Da Inquietude (1998; Inquietudine), un trittico di storie inanellate l’una nell’altra e ambientate in un interno borghese e in teatro, tra ambienti mondani e decadenti e paesaggi contadini solcati dall’eco di antiche leggende, a un film ‘giansenista’ e cadenzato dentro immagini vivide come La lettre (1999; La lettera) ispirato a La princesse de Cléve di Madame de La Fayette. Da Palavra e utopia (2000; Parola e utopia) sulla figura di un libertario predicatore gesuita del Seicento, Padre Vieira, occasione per ritornare sulla densità simbolica del rapporto visione-parola e sui destini portoghesi legati all’ascesa e alla decadenza delle conquiste d’oltremare, a Vou para casa, noto anche come Je rentre à la maison (2001; Ritorno a casa) dove, coadiuvato da uno splendido Michel Piccoli, al meglio della sua grazia sottilmente ironica, compone una variazione sul senso dell’essere attori e sul valore della finzione. Fino a giungere a O princípio da incerteza (2002; Il principio dell’incertezza), enigmatico ritratto di intrecci amorosi, e a Um filme falado (2003; Un film parlato), inquietante monito di fronte alla perdita di identità di un Occidente globalizzato e al ritorno dei fanatismi, attraverso un viaggio nella memoria di tutta la civiltà del Mediterraneo e nel suono di lingue antiche e moderne. Nel 1982 O. ha girato un film ‘segreto’, destinato per sua espressa volontà a essere proiettato soltanto dopo la sua morte: Visita ou memórias e confissões.

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