Emilio Ghione

Riportiamo questo articolo del dizionario biografico Treccani perchè ricorda questo personaggio dei tempi d’oro del cinema muto italiano come nessuno.

Nacque a Torino il 30 luglio 1879 da Celestino e Maddalena Arvaro, originari delle Langhe. Al cinema approdò all’età di trent’anni, con alle spalle un passato di miniaturista e pittore di fiori e un servizio militare nella Scuola di cavalleria di Pinerolo, che gli valse il suo primo ingaggio, come “comparsa a cavallo”, in una pellicola (1909) dell’Aquila Film di Torino, diretta dall’avvocato S. Pugliese e specializzata in produzioni avventurose. Sempre con parti di scarso rilievo e con la paga modesta di 90 lire al mese, passò poi all’Itala Film di G. Pastrone e C. Sciamengo e, nel 1911, in coincidenza con l’inizio dell’età aurea del cinema italiano, si trasferì a Roma firmando un contratto con la Cines, allora impegnata in una serie di pellicole storico-monumentali.

È alla Cines che il G. uscì finalmente dall’anonimato, interpretando il ruolo di s. Francesco, accanto a Italia Almirante Manzini, nel S. Francesco o Il poverello di Assisi, del 1911, di E. Guazzoni, che guadagnò il II premio all’Esposizione di Torino. Sempre nel 1911, dal matrimonio con C. Coletti, nacque suo figlio Pier Francesco.

Un anno più tardi ebbe inizio il fortunato sodalizio con Francesca Bertini e A. Collo alla Celio Film (nata da una costola della Cines), dove i tre attori, all’epoca di modesta notorietà, guadagnarono grande fama in breve tempo, principalmente come interpreti dei film di B. Negroni, ispirati al teatro boulevardier parigino o di sapore melodrammatico. Con questa casa cinematografica il G. girò: Idillio tragico, Lagrime e sorrisi e Il pappagallo della zia Berta, tutti del 1912, e L’anima del demi-monde e La maestrina, del 1913. Ma il suo maggior successo come attore fu certamente l’Histoire d’un Pierrot (1913), edizione cinematografica di una delle più popolari pantomime musicali dell’epoca – autori F. Bessier e M. Costa – diretta da Negroni.

Nel film, che raccontava le peripezie amorose del timido e incostante Pierrot (impersonato dalla Bertini), il G. interpretava il ruolo di Pochinet. La pellicola, ricordata come il primo tentativo di sonoro sincronizzato ai tempi del muto, per la perfetta corrispondenza tra musica e gesti, fu salutata da una critica pressoché unanime come opera d’eccezionale interesse che documentava, oltre alle interpretazioni memorabili degli attori, la maturità tecnica raggiunta dal cinema italiano nell’uso del montaggio e dei primi piani.

Sempre nel 1913 e alla Celio, debuttò come regista (La cricca dorata, L’idolo infranto, Fantino e gentiluomo), lavorando con grande rapidità e disciplina. Passato nel 1914 alla Caesar Film, dove fu assunto con funzioni di primo attore e di direttore artistico, proseguì, intensificandola, l’attività registica (L’amazzone mascherata, Triste impegno, Un grido nella notte, tutti del 1914), ma soprattutto inventò il celebre personaggio di Za la Mort, che impose definitivamente la sua maschera: un volto pelle e ossa, dai capelli radi, e il fisico asciutto, nervoso ed elegante.

A raccontare come nacque l’idea di Za la Mort è lo stesso G.: “Fu nel 1912. In Francia trionfava Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Bisognava, per l’onore della nostra produzione, contrapporre un personaggio equivalente. Mi venne l’idea di crearne uno col nome di Za la Mort, che nel gergo degli apaches… vuol dire: viva la morte. Se Lupin fu un ladro gentiluomo, io fui un apache sentimentale, di nobili sensi. Vivevo nella violenza ma odiavo la bruttura; amavo le viole e i poveri. Sapevo intenerirmi a tempo e luogo. L’apache romantico, in una parola” (cfr. Encicl. dello spettacolo). Il G. vestì per la prima volta i panni di Za la Mort in Nelly la gigolette ovvero La danzatrice della Taverna nera (1914), da lui scritto, diretto e interpretato accanto alla Bertini, coautrice del soggetto. La storia, ambientata nei bassifondi di Parigi, ottenne un successo enorme sui mercati italiani ed europei.

Assunto nel 1915 dalla Tiber Film, il G. proseguì prevalentemente nella serie di Za la Mort sia come interprete, sia come regista, affiancato dall’attrice Kally Sambucini, per la quale inventò il personaggio femminile di Za la Vie, docile e fedele compagna dell’apache. Tra i suoi maggiori successi nel ruolo di Za la Mort vanno citati Anime buie (1916), Il triangolo giallo (1917) e soprattutto il serial I topi grigi (1918), che racconta le vicende di una banda di sadici e brutali rapinatori, capeggiata dal magnanimo Za la Mort, che raddrizza i torti e protegge i deboli.

Orfani abbandonati, buste misteriose, documenti scomparsi, rapimenti, avventure esotiche, colpi di scena e lieto fine sono gli ingredienti fortunati del nuovo genere “della malavita” inaugurato in Italia dal G. e che poi, per circa un decennio, affiancò i due maggiori filoni dell’epoca, quello storico e quello mondano. Ispirandosi alla tradizione francese ottocentesca del melodramma sociale, il G. seppe coniugare con successo la vocazione cronachistica con il gusto romanzesco, ambientando le sue storie tra i delinquenti dei grandi agglomerati urbani, ma conservando un impianto avventuroso e sentimentale.

Negli anni della Tiber Film, accanto alla serie di Za la Mort, il G. coltivò anche altri generi, dirigendo e interpretando, nei panni di un generale austriaco, il film storico Guglielmo Oberdan (1915) e la pellicola d’ambientazione realistica Don Pietro Caruso (1916), tratta dall’omonimo romanzo di R. Bracco, dove fu apprezzato per la recitazione spontanea, comparendo per l’ultima volta al fianco della Bertini, nella parte di suo padre, un imbroglione che vive d’espedienti ma che, in buona fede, cerca per lei il matrimonio riparatore.

Sono questi gli anni in cui il G. raggiunse lo status di divo: conteso dalle case cinematografiche, passava con disinvoltura dall’una all’altra, scriveva, dirigeva e interpretava i suoi film, guadagnava fino a 100.000 lire al mese, acquistava libri, mobili antichi, ville, cani, automobili, perdeva cospicue somme al gioco del poker e teneva fede, anche fuori dal set, a un personaggio felicemente sregolato e mondano.

Giunto ormai all’apice del successo, nel 1920 lasciò la Tiber e fondò una sua casa di produzione, la Ghione Film, che usufruiva degli stabilimenti Pasquali di Torino. Continuò a scrivere, dirigere e interpretare la serie di Za la Mort con ritmo frenetico – senza tuttavia trascurare i drammi mondani (L’ultima livrea, 1920) – conservando come partner femminile la Sambucini nella parte di Za la Vie.

Uniche eccezioni, Za la Mort e Za la Vie, e L’ergastolano innocente, dove il ruolo della protagonista fu affidato all’attrice tedesca Fern Andra. Le due pellicole, infatti, entrambe del 1924, furono girate dal G. in Germania con capitali italo-tedeschi, per sfuggire alla crisi che stava investendo il cinema italiano.

Nel 1925, tornato in Italia, il G. chiuse la sua casa di produzione e abbandonò la regia per prodursi esclusivamente come interprete nel collaudato filone storico del kolossal in costume. Fu un distinto principe napoletano in Cavalcata ardente (1925) di C. Gallone e un antico sacerdote nel celebre film di A. Palermi, Gli ultimi giorni di Pompei (1926). Diventate sempre più rare le scritture cinematografiche, nel 1926 si diede al teatro con la Compagnia delle maschere e del colore, organizzata da S. Pittaluga, e formata da ex attori del cinema muto, tra cui Collo e la Sambucini. Dopo un’iniziale curiosità da parte del pubblico e diverse rappresentazioni a Roma e in molti centri, soprattutto meridionali, il successo venne meno rapidamente. Tra i testi da lui scritti e portati in scena, si ricordano I tre tempi di Za, Nei bassifondi di Parigi, Una mano nella notte, La spelonca della jena, intrisi, come le sue storie cinematografiche, di avventura, mistero ed emozione.

Le condizioni economiche del G. diventarono, dunque, sempre più precarie, tanto che, nel 1927, durante un ricovero all’ospedale di Firenze, fu aperta, dal giornale milanese Il Torchio, una sottoscrizione in suo aiuto. Nel 1928 tornò nuovamente al teatro, nella commedia gialla Broadway, di P. Dunning e G. Abbott, al fianco di C. Pilotto, R. Calò, Eva Magni e Totò, praticamente in un ruolo di comparsa, “pronunciando non più di sette parole e sfruttando soltanto la sua fisionomia caratteristica” (Palmieri), quindi, nel 1929, con una sua compagnia di avanspettacolo (Mit la gigolette, Il parlatorio del carcere). Lo stesso anno partì per Parigi in cerca di lavoro, ma si ridusse a dormire sotto i ponti della Senna. Ricoverato in ospedale per una febbre improvvisa, scoprì che gli restavano solo pochi mesi di vita ed espresse il desiderio di morire a Roma.

Nel mese di dicembre, grazie alla generosità di Lina Cavalieri, si mise in viaggio verso l’Italia ma, per l’aggravarsi della malattia, fu costretto a fare tappa a Torino, dove venne ricoverato nel sanatorio S. Luigi. Riprese le forze, riuscì finalmente a raggiungere la capitale. Morì a Roma, il 7 genn. 1930, nella clinica Cesare Battisti; al suo fianco erano la Sambucini e il figlio Pier Francesco.

Il G. è stata una delle figure più interessanti del muto, e la sua carriera, lunga circa vent’anni, ha seguito la parabola del cinema italiano degli anni Dieci e Venti: l’ascesa trionfale, l’euforia dei guadagni, quindi la concorrenza, vincente, del cinema americano.

Attore cinematografico d’istinto, il G. ha lasciato un giudizio unanimemente positivo sulla sua maschera, “magra, scavata, incisiva, misteriosa, dallo sguardo fosforescente, una specie di gufo dei bassifondi, dove il male si mescola al bene in un groviglio indissolubile […] visivamente eloquente” (Calendoli). Non altrettanto, invece, può dirsi della sua cinematografia come regista, altalenante, secondo la critica, tra realismo e melodramma, ma soprattutto abborracciata e confusa, “ingenui ritagli di cronaca nera, che presupponevano tragiche periferie di grandi città che mai mostravano, e soprattutto vaste e torbide premesse sociali che mai enunciavano” (Gromo). Tuttavia c’è chi gli ha riconosciuto una “relativa aderenza alla realtà” e il tentativo di costruire intorno alla sua figura un “ambiente” che in qualche modo la giustifichi (Lizzani).

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