The words

di Gianfranco Angelucci

In “Festa mobile” Ernest Hemingway racconta di quando in gioventù viveva a Parigi, tra le due guerre, e sua moglie perse in stazione la valigia che conteneva tutti i manoscritti di quel periodo euforico e burrascoso. Disgrazie che capitano, non solo invenzioni letterarie. Ispirandosi a quell’incidente Brian Klugman e Lee Sternthal hanno immaginato e diretto un film che si intitola “The words” (Le parole). L’avvio è molto accattivante. Una coppietta americana senza tanti soldi si reca in viaggio di nozze a Parigi. Da un rigattiere lui adocchia una vecchia, fascinosa borsa di cuoio; lei vede che gli piace e gliela compra. Quando tornano a New York Rory, aspirante scrittore senza fortuna, scopre in una fodera interna un dattiloscritto in inglese; ne è catturato al punto che lo legge tutto d’un fiato e poi lo ricopia parola per parola sul suo computer. E’ il romanzo che avrebbe sempre desiderato scrivere, molto più bello di quelli che sistematicamente gli vengono rifiutati dagli editori. Anche la moglie, Dora, incappando per caso nel testo rimasto aperto sullo schermo del desktop, viene travolta dall’emozione: un vero capolavoro! Il marito non trova il coraggio di rivelarle la verità e lei lo spinge a pubblicarlo ad ogni costo, proponendolo all’agenzia letteraria in cui è impiegato come fattorino. Il consenso è immediato, straripante; il libro viene stampato con gran clamore, Rory diventa ricco e famoso, chiamato a presentare l’opera nei circoli più prestigiosi della città. Così un giorno si presenta un vecchio, interpretato dal magnifico Jeremy Irons, per farsi firmare la copia acquistata, e fingendo assoluta noncuranza lo mette al corrente della scomoda realtà dei fatti. Quella storia è la sua storia d’amore e di disperazione scritta a Parigi nell’immediato dopoguerra, prima del ritiro delle truppe americane dall’Europa. Aveva incontrato in un caffè una bellissima ragazza, Celia, che faceva la cameriera, se n’era innamorato perdutamente e l’aveva sposata. Ma la favola bella aveva avuto un contraccolpo quando il loro bambino era morto per un morbo congenito e la moglie, caduta in depressione, era tornata a vivere presso i suoi genitori in campagna. Rimasto solo e oppresso da una tetra angoscia, il giovane s’era messo a scrivere, dimenticandosi persino di mangiare e di dormire, e in poche settimane aveva raccontato l’intera vicenda in quel romanzo. Poi l’aveva portato a Celia perché lo leggesse. La moglie era rimasta così commossa da prendere subito un treno per tornare a vivere con lui, ma nell’eccitazione alla stazione di Parigi aveva dimenticato la borsa con il manoscritto sulla retina porta oggetti. E non erano più riusciti a ritrovarla. Il seguito del film purtroppo non mantiene le promesse, il castello dei destini incrociati non lievita come dovrebbe e la sceneggiatura si annoda faticosamente su se stessa. Forse perché gli autori hanno scelto per poca fiducia soluzioni meccaniche anziché poetiche, in un assunto più moralistico che metafisico: chi si appropria del destino di un altro ne sconta anche le pene. Nel film troviamo fin dalle prime sequenze Rory ormai maturo (recitato dall’imbolsito Dennis Quaid) che sta leggendo a una platea incantata la storia del suo plagio camuffata abilmente nella finzione di un nuovo romanzo; nel quale apprendiamo anche come finì il rapporto scomodo e carico di sensi di colpa con l’autore del manoscritto originale, il vecchio spuntato dal nulla, che per sopravvivere trascina la sua esistenza lavorando come inserviente in un vivaio fuori città. La storia funziona indipendentemente dalla sua riuscita; un po’ come accadde anni fa con “Proposta indecente”: se un miliardario in cambio di un assegno a molti zeri ti propone di portarsi a letto tua moglie, come reagisci? E allo stesso modo: come ti comporteresti trovando un manoscritto anonimo che puoi spacciare per tuo senza difficoltà? Accetteresti di vivere splendidamente all’ombra dell’imbroglio o sceglieresti la strada dell’amara onestà accettando i tuoi limiti? Il concorso è aperto.

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