Il piccolo Gatsby (Il grande Gatsby di Baz Luhrmann)

di Gianfranco Angelucci

Per capire la ragione della tiepida accoglienza riservata a Cannes a “Il Grande Gatsby”, consiglio agli innumerevoli ammiratori di Francis Scott Fitzgerald e agli amanti del buon cinema, di rivedere “Gli ultimi fuochi” girato nel 1972 da Elia Kazan. Un capolavoro in cui Robert De Niro, giovanissimo e mai così bravo, interpretava Monroe Stahr, il geniale e infelice tycoon di Hollywood. La storia d’amore, palpitante in ogni inquadratura, è imbevuta di dolcissima fatalità e la protagonista femminile emana un fascino misterioso, irresistibile. Gli Anni Ruggenti ci avvolgono in una densità da sogno e da leggenda. Ciò non avviene nel film di Baz Luhrmann nonostante lo sforzo produttivo e la ricostruzione d’epoca impeccabile; auto, esterni, abiti, acconciature, atmosfere, tutto è teatrale, esteriore. In “Romeo+Juliet”, o “Moulin Rouge”, molto graditi al grande pubblico, lo stile ridondante, coloratissimo, esagitato risultava funzionale alla proposta estrosa di un musical postmoderno. Ma nel “Grande Gatsby” quel modello non funziona più, perché il romanzo di Fitzgerald è una storia intimista, folle e delicata. Si narra l’amore disperato di un personaggio ricchissimo e misterioso del quale non si conosce l’origine familiare né la provenienza della sua fortuna. Ha comprato un castello a Long Island, la spiaggia di NY, da cui può vedere, al di là del golfo, la villa della sua amata Daisy. La ragazza ha sposato un autentico “wasp” dell’East Coast, che colleziona trofei praticando il polo, guida rombanti macchine sportive, teorizza la soggezione delle classi inferiori temendo le conseguenze dei matrimoni misti, e nonostante le nozze con l’affascinante mogliettina non disdegna accoppiamenti ancillari dovunque il vento spiri. Gatsby invece, pur giunto al vertice della scalata sociale circondato da un lusso sfrenato, è terribilmente solo perché non possiede lei, la creatura idealizzata con cui aveva amoreggiato prima di partire per la guerra. Tornato alla vita civile, senza arte né parte, non era stato in grado di offrirle l’indispensabile condizione di benessere che agognava per lei. Ma una volta ottenuto il successo (non importa con quali mezzi) ha ripreso ad accarezzare il suo sogno; e ogni notte si isola sul pontile a fissare la luce verde che occhieggia in cima al molo della residenza in cui vive l’amata. L’amicizia casuale con un vicino di casa, cugino di Daisy, rimette ogni carta in gioco e i due antichi innamorati finiranno per incontrarsi di nuovo, travolti dalla passione. Con conseguenze disastrose che scoprirà felicemente chi non ha letto il romanzo, o veduto la precedente trasposizione del ’74 con Robert Redford e Mia Farrow. Luhrmann il quale pensa più agli artifici tecnici della ripresa che alla vicenda struggente, non solo d’amore, ma anche di conflitto tra due mondi inconciliabili – la vecchia America aristocratica e conservatrice dei Padri Pellegrini e il nuovo che avanza nel bene e nel male rappresentato dall’arricchito Jay Gatsby – appare sordo all’estenuata morbosità di Fitzgerald, rimanendo in superficie. I personaggi sembrano delle marionette; Leonardo di Caprio è fuori ruolo, recita tutto il tempo afferrando di rado il personaggio; Daisy che nelle pagine dello scrittore è il prototipo della creatura angelicata, il sogno irraggiungibile per sofisticatezza e avvenenza (“Adoro le grandi feste, sono così intime!”) nella figurazione di Carey Mulligan sembra una pupattola dei grandi magazzini; Joel Edgerton nella parte del marito anima una caricatura vuota. Infine nutro il crudo sospetto che a Luhrmann interessino poco le donne; non sa trasmetterne le emozioni, né restituire la sensualità dei loro corpi avvolti nei lustrini del charleston. Che vada a scuola da Elia Kazan!

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