Re della terra selvaggia

di Gianfranco Angelucci

Non le hanno dato il premio Oscar come miglior attrice protagonista e mi sembra sensato, sarebbe stato assolutamente sproporzionato nonostante l’innegabile simpatia e spontaneità. La bambina si chiama Quvenzhané Wallis e nel film il suo nome è Hushpuppy, che nel sud degli Stati Uniti indica una focaccina di farina di mais, insomma un boccone tenerissimo; ha una faccetta tonda, imbronciata, e una corona di capelli a cespuglio grande quasi come tutto il resto del corpo, esile e nervoso. Davanti alla cinepresa è molto espressiva, certo più naturale dei comprimari presi tutti dalla strada. Il film si intitola “Re della terra selvaggia”, girato in 16 mm da un regista esordiente, Benh Zeitlin, con pochissimi soldi. Racconta come in un reportage scombiccherato, la storia di questa bambina che vive in una baracca fatiscente della Louisiana quando nel 2005 arriva l’uragano Katrina e spazza via tutto con un’inondazione devastante. Per la quale George Bush dovette dichiarare lo stato di emergenza e procedere allo sgombro forzato degli abitanti della Louisiana, Alabama e Mississippi. Ma alcuni irriducibili superstiti della zona, chiamata familiarmente “la grande vasca”, non vogliono sloggiare, si rifiutano di abbandonare le paludi e quella condizione di libertà che, per quanto miserabile, è pur sempre preferibile a qualche triste accampamento della protezione civile; preferiscono vivere immersi nella natura, Beasts of the Southern Wild, Animali del Selvaggio Sud, come suona il titolo inglese. La madre della bambina, una donna talmente bella e sensuale che in cucina i fornelli si accendevano da soli al suo passaggio, è morta, e Hushpuppy vive sola con il padre nell’allegra e sgangherata comunità di ubriaconi. Il padre, malato, considera una sciagura finire in ospedale “attaccato al muro con una spina”; e cerca di insegnare alla figlia con le buone o con le cattive a sopravvivere in quell’ambiente ostile e malsano, mangiando granchi crudi e pescando pesci a mani nude. Ha capito che la piccola, con il suo carattere indomabile, possiede le qualità per diventare il “Re della terra selvaggia”, se davanti a lei grossi animali voraci che sembrano usciti da qualche bestiario preistorico, si prostrano in preda a timorosa devozione. Visionarietà e realtà si mischiano nei miasmi della palude, tutto bene; ma per descrivere il magico incanto dell’infanzia di fronte a un destino così avventuroso ci sarebbe voluta la penna di Mark Twain, che il regista, anche autore della sceneggiatura, non possiede. E quindi la storia rimane alle intenzioni, sufficienti peraltro a collezionare riconoscimenti in tutto il mondo, a cominciare dalla Caméra d’or al Festival di Cannes assegnata dai francesi incurabilmente snob, a continuare dal Sundance Film Festival specializzato nel cinema di denuncia, per finire alle ben quattro nomination agli Oscar. Goffi tentativi di una società opulenta, corrotta e spesso ingiusta con gli emarginati, di mettere a tacere con poca spesa i propri sensi di colpa.

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