Cinema del 1945: la fine della guerra e l’inizio della Ricostruzione

di Giovanni Scolari

Nella storia del cinema italiano c’è una strana cesura. Si passa, infatti, dal cinema detto dei telefoni bianchi, più o meno ispirati agli ideali sociali del fascismo, al neorealismo, fenomeno di straordinaria importanza cinematografica e culturale che ha giocato un ruolo notevole nella ricostruzione dell’immagine dell’Italia all’estero dopo il conflitto mondiale. Il cinema del periodo bellico viene forzatamente messo da parte sia per la mancanza di opere realmente significative dal punto di vista estetico, sia per l’estrema difficoltà con cui venivano distribuite e viste le pellicole. Eppure il cinema rappresenta, anche e soprattutto in quegli anni, il più importante mezzo di svago degli italiani. La guerra veniva rimossa nelle sale cinematografiche dove giovani e donne potevano dimenticare lo strazio del conflitto con il suo carico di lutti e distruzioni.

Se dal punto di vista cinematografico questo periodo ha un’importanza relativa, limitata quasi esclusivamente ad un semplice lavoro di documentazione; la storia può, invece, trovare interessanti spunti nell’analisi dei dati, inevitabilmente incompleti, che riguardano il cinema italiano di quel biennio.

La produzione cinematografica del periodo bellico deve essere necessariamente divisa in due sezioni. Insieme al regime fascista, infatti, crollava anche tutto l’apparato istituzionale collegato e con esso anche i vertici dell’industria cinematografica che in Italia, come in tutti gli stati totalitari, era asservita e regolata da organi controllati direttamente dal partito fascista. In Mussolini fu chiaro, fin dai primi anni venti, l’importanza del mezzo cinematografico, tant’è che ancora prima della marcia su Roma venivano prodotte pellicole ritraenti il capo del fascismo. Nel 1925 Mussolini nazionalizzava l’Istituto Luce e lo rendeva organico all’apparato propagandistico del regime fascista. L’istituto Luce produceva e realizzava i notiziari che precedevano le proiezioni cinematografiche. Con l’avvento del sonoro tale monopolio contribuiva in modo significativo alla costruzione del culto della personalità di Mussolini. A conferma di quanto detto basta ricordare come il Duce controllasse personalmente le riprese che lo vedevano protagonista, fino a decidere il montaggio o il taglio di alcune scene.

Inizialmente, tuttavia, il mercato cinematografico era assolutamente libero; veniva, anzi, incoraggiata la distribuzione dei film americani che già dagli anni venti avevano assunto un ruolo preminente nel panorama mondiale. L’introduzione del parlato, ovviamente, mise in luce tutte le potenzialità del mezzo filmico, la cosa non sfuggì agli apparati propagandistici dei totalitarismi che nel corso degli anni trenta investirono parecchio nel cinema, accentuando il ruolo e i poteri della censura.

Anche in Italia avvenne questo. Il cinema si piegò rapidamente alla retorica del regime proponendo come soggetti delle pellicole più importanti gli eroi della storia d’Italia, presi a simbolo della grandezza della penisola e come predecessori del più grande di tutti: Mussolini. Ecco che l’Impero Romano, momento massimo della potenza Italiana, diventava (non solo per i richiami iconografici) l’ideale sfondo storico in cui riverberare la grandezza del secondo impero che stava per costituirsi. “Scipione l’Africano” (1937) di Carmine Gallone è l’esempio più citato in questo frangente sia per l’evidente identificazione che il regista fa tra il condottiero romano e Mussolini, sia per l’enorme sforzo economico compiuto per la produzione della pellicola, imponente kolossal italiano finanziato dallo stato. Inoltre, motivo non meno importante, il film giungeva all’indomani della conquista dell’Etiopia e delle susseguenti sanzioni economiche che la Società delle Nazioni inflisse all’Italia. Proprio queste sanzioni accentuano l’isolamento politico dell’Italia che si stringe sempre di più nell’abbraccio letale con la Germania di Hitler e individua nell’Inghilterra e negli Stati Uniti i grandi nemici.

Nel cinema tale situazione, oltre a numerosi altri fattori che qua tralasciamo, porta all’emanazione di una legge che, di fatto, impedisce l’importazione delle pellicole made in Hollywood e consegna il mercato italiano alle produzioni locali e a quelle provenienti da stati “amici” come la Germania e l’Ungheria. Si cerca, quindi, di colmare il vuoto creato dall’assenza dei divi statunitensi con eroi casalinghi come Amedeo Nazzari, Fosco Giachetti, Assia Noris, Vittorio De Sica, Doris Duranti ecc. Inoltre, vengono propagandate con sempre maggior enfasi le iniziative a supporto che il regime mette in atto come la costruzione di Cinecittà e del Centro Sperimentale di Cinematografia, o la nascita del Festival del Cinema di Venezia. Tuttavia, gli immensi sforzi produttivi, incoraggiati e supportati dal Minculpop, non raggiungono i risultati desiderati. A conti fatti le grandi produzioni di regime non riescono a coprire i costi, nonostante l’enorme afflusso di pubblico nelle sale cinematografiche.

Il panorama cambia, ovviamente, dopo l’8 settembre e la nascita della Repubblica Sociale di Salò. I gerarchi rimasti vicini al Duce, con Luigi Freddi in testa, lanciano una campagna per portare la città del cinema a Venezia. All’appello rispondono in pochi. La maggior parte dei cineasti sceglie di restare a Roma confermando così, anche se la cosa era ormai conclamata, il distacco definitivo tra il regime e il popolo italiano.

Tra il 1943 e il 1945 il cinema italiano si spezza in due tronconi che producono complessivamente 68 film . È bene sottolineare che ciascuna di queste pellicole viene realizzata in modi radicalmente opposti. Una ventina di queste opere appaiono come il prodotto della RSI, ma anche in questo caso è bene distinguere. Tra di esse ci sono film iniziati a Roma, interrotti e poi completati al nord, film di intrattenimento che sono stati distribuiti nel dopoguerra, film di propaganda scomparsi nel nulla, opere singolari come il cartone animato La rosa di Badgdad di Anton Giulio Domenighini, realizzato a Bornato, in provincia di Brescia. Queste produzioni risultano poco studiate, quasi rimosse nelle ricostruzioni del periodo e sono anche di difficile consultazione, visto che di alcune di esse si sono perse le tracce. Anche tra le altre opere c’è parecchia confusione. È il caso de Il fabbro del convento di Calandri che ha ottenuto il visto della censura il 21 dicembre del 1945, ma che il dizionario del cinema della Gremese inserisce tra i film del 1947. Infine è pressoché impossibile sapere quanti spettatori hanno visto nelle sale queste pellicole; nei due anni conclusivi della guerra mondiale non c’è alcun dato al riguardo.

I primi incassi si riferiscono al 1945, anzi più precisamente a partire dal 1945. Un film, infatti, restava nel circuito cinematografico diversi anni e questo non consente di analizzare con assoluta certezza le cifre fornite dalla SIAE e dall’AGIS. Questi dati sono, quindi, una tendenza molto più che credibile e come tali devono essere studiati. Ancora una volta bisogna però chiarire che la filmografia analizzata non ha una datazione precisissima. Possiamo trarre un valido esempio parlando di L’angelo del miracolo di Ballerini. Il film è stato girato in Sicilia nel 1944, risulta distribuito nel meridione nello stesso anno e solo due anni dopo nel nord d’Italia; tuttavia, il visto di censura reca solo la data del 15 gennaio del 1945. È di difficile collocazione anche la Grande aurora di Scotese che viene iniziato nel 1944, terminato nel 1946 e distribuito nelle sale pare a partire dal 1947. Non è, però, ai fini storici, importante solo la data in cui il film viene proiettato. Certo, gli incassi e la reazione del pubblico sono l’immediato riscontro per interpretare lo stato d’animo, gli interessi e i gusti del popolo italiano dopo la conclusione del conflitto. Tuttavia, per la comprensione della mentalità dell’epoca, è significativo anche lo studio di tutto quello che viene prodotto, perché disvelatore di altri aspetti del sentire comune della popolazione e della classe dirigente di un paese.

Esaminiamo rapidamente i generi affrontati dall’apparato filmico della RSI. Se si eccettua il cartone animato a cui abbiamo già accennato, i film considerati drammatici sono 12 e le commedie 4. Solo un paio di esse sembrano aver avuto regolare distribuzione come Senza famiglia di Ferroni e La vita semplice di De Robertis, diversi non furono, addirittura mai proiettati in quanto completati poco prima della liberazione del nord. Il dato riguardante tutti e 68 i film è il seguente: 45 sono le opere “drammatiche”, 18 le commedie, 1 cartone animato, 2 documentari, 1 epico e 1 considerato nel genere avventura.

Anche della maggior parte delle pellicole qua prese in considerazione non si conosce l’incasso. Singolarmente, e in contraddizione con tutte le convinzioni della stampa, il film che ha raggiunto gli introiti più alti non è Roma città aperta, ma lo sconosciuto I dieci comandamenti di Chili che sembra essere stato girato nel 1944 al solo scopo di dare lavoro ad artisti e maestranze che si erano sottratte al richiamo della RSI. Scorrendo, infatti, la lista di coloro che vi hanno partecipato si possono trovare i nomi di Pietro Germi, Mario Camerini, Amedeo Nazzari, Rossano Brazzi, Roldano Lupi, Aldo Silvani, Elisa Cegani, Virna Lisi, Assia Noris. La cifra incassata è nettamente superiore al secondo incasso, appunto Roma città aperta con 125 milioni di lire, e raggiunge la strabiliante quota, per allora, di 705 milioni circa. Questo dato lascia, però, perplessi al punto che gli autori del Dizionario Gremese lo ritengono poco attendibile. Segue, come abbiamo già detto, Roma città aperta. A ruota troviamo due opere di Mario Mattoli: una commedia, Partenza ore7, e un film drammatico interpretato da Fosco Giachetti, uno degli eroi del cinema fascista, Eduardo De Filippo e Galeazzo Benti. Al 5 posto, poi, ci sono, entrambi con 90 milioni, O sole mio, girato ovviamente a Napoli da Giacomo Gentilomo con la presenza di Tito Gobbi, Arnoldo Foà e Vittorio Caprioli, e Due lettere anonime di Mario Camerini con Clara Calamai, Andrea Checchi e Annibale Ninchi. Insieme a quelli già citati, sono 32 gli incassi a nostra disposizione. Nei primi 10 vi è solo una commedia, Partenza ore 7, poi vi sono solo opere drammatiche. Per trovare un’altra commedia si deve andare all’undicesimo posto con Un americano in vacanza di Luigi Zampa. Mancano le cifre relative ai due documentari cioè Aldo dice 26×1 (prodotto dall’ANPI , dal PLI e dal PSIUP) con immagini di vita partigiana e Giorni di gloria (realizzato grazie all’apporto del PWB) sulle divisioni garibaldine della Valsesia, diretto da diversi grandi nomi del cinema italiano, tra cui Luchino Visconti e Giuseppe De Santis.

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