Le invasioni barbariche

Il nostro parere

Le invasioni barbariche (2023) CAN di Denys Arcand


Al capezzale di Remy, malato terminale, accorrono tutti quelli che hanno fatto parte della sua vita. L’uomo è intenzionato a risolvere alcuni problemi nei rapporti tra le persone che ama, prima di poter morire in pace.


I giovani abbracciano la fantasia che vivranno per sempre, il vecchio aggrappato alla fantasia altrettanto seducente che morirà di una morte felice. Questo è il film di Arcand, un film che contiene indignazione, ironia e idealismo. “Il declino dell’impero americano” (1986) coinvolse molti degli stessi personaggi durante la pienezza delle loro vite. A quel tempo lavoravano nel dipartimento di storia di un’università di Montreal: tutti parlavano di sesso, ma il vero argomento era l’arguzia, la riflessione, la specularità.

Quando le persone stanno costruendo la loro carriera, devono dimostrare di essere migliori dei loro contemporanei. Coloro che vincono devono allora dimostrare – a se stessi – di essere bravi come una volta. Remy ha certamente eccelso nel suo stile di vita, come il più lussurioso e gaudente della sua cerchia, ma ogni nuova conquista ha lasciato indietro qualcuno – e ora, alla fine, sembra aver lasciato quasi tutti indietro. I figli sono lontani da lui e non c’è comunicazione; gli studenti devono essere corrotti perché visitino il suo capezzale (una di loro si rifiuta di prendere i soldi).

Il modo con cui Remy affronta la morte imminente a causa del tumore che l’ha colpito non viene narrato in modo molto originale ma questa mancanza di originalità non priva l’opera di una ricchezza intrinseca, che è quella che deriva da uno sguardo profondamente umano ai suoi personaggi e alle circostanze e una squisitezza nel trattamento delle situazioni argomentative, il tutto avvolto in un dolce e cadenzato ritmo narrativo, che trasforma questo film in uno di quei piccoli gioielli che, al di là dei suoi possibili fallimenti e debolezze, rendono la sua esperienza visiva piacevole.

“Le invasioni barbariche”, scritte anche da Arcand, è manipolativo senza scuse. Non c’è mercato per un film su un uomo che muore miserabile, devastato dalla nausea della chemio. Infatti Remy è anche permesso il suo gusto per i buoni vini e le feste di famiglia. E che meraviglia il modo in cui sua moglie e i suoi ex (e attuali!) amanti si riuniscono per celebrare quello che sembra essere stato il caso più notevole di priapismo che qualcuno di loro abbia mai incontrato. Non lo perdonano tanto, penso, quanto invidiano la sua capacità di vivere alle sue condizioni e di farla franca. Le sue illusioni sono tutto ciò che ha, e anche se sono state ingannate da loro, non vogliono che Remy muoia senza di loro.

Arcand riprende l’analisi critica dei valori etici e morali della società occidentale, esplorando il ritratto della classe intellettuale colta. Da un lato, si presenta come romantica, ma dall’altro è disillusa e fragile. Mentre nel primo capitolo l’approccio era più satirico, questa volta il regista canadese sceglie un registro più serio fornendo il ritratto di una classe sociale imborghesita e nostalgica, che non rinnega nulla, ma guarda al passato con nostalgia e rassegnazione.

Arcand, anche sceneggiatore, dissemina il film di dialoghi arguti e brillanti, dove riflette sulla politica e la storia, religione ed economia con un taglio lucido e disincantato. A questo aggiunge una critica sociale al Canada per gli ospedali stracolmi, la sanità negata e l’alto tasso di corruzione. A ciò aggiunge ironia e doppi sensi, espliciti riferimenti al sesso e momenti di commozione intensa cercando di non dare risposte moralistiche facili ed immediate. La volontà è di tracciare un quadro della nostra epoca attraverso lo sguardo privilegiato di intellettuali.

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