L’america in NUOVOMONDO di Emanuele Crialese


di Giovanni Scolari

EMANUELE CRIALESE: LA VITA E IL REGISTA

Emanuele Crialese (Roma, 26 luglio 1965) è un regista e sceneggiatore italiano tra i più interessanti dell’ultima generazione. Studia alla New York University dove si laurea nel 1995. Dopo aver girato diversi corti, esordisce con un lungometraggio nel 1997, Once We Were Strangers, prodotto con i soldi ricavati dalla vendita di un paio di orecchini ricevuti in eredità dalla bisnonna. Seguono Respiro e Nuovomondo, film che riscuotono notevole successo soprattutto all’estero, specialmente in Francia.

IL FILM

Nuovomondo ha raccolto diversi importanti premi. Alla 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ha ottenuto il Leone d’Argento – Rivelazione a Emanuele Crialese. Successivamente ha collezionato 3 David di Donatello 2007 per la miglior scenografia, i migliori costumi e i migliori effetti speciali visivi. Inoltre ha vinto decine di premi in diverse manifestazioni cinematografiche.

Tullio Kezich, sul Corriere della Sera, dice

Di fronte a Nuovomondo, visto che siamo in Sicilia, mi è affiorato il ricordo della scritta sul portale del cimitero di Montelepre: «Fummo come voi, sarete come noi». E ho pensato che i clandestini di colore, angosciose presenze negli sbarchi quotidiani del tiggì, potrebbero ribaltare il motto in chiave di speranza: «Foste come noi, saremo come voi». Fra altri cent’ anni, Bossi permettendo, i figli e nipoti di questi miserabili potrebbero infatti ritrovarsi alla pari con quelli che stentano ad accoglierli, proprio come gli odierni italoamericani. E fra i paradossi della contemporaneità mettiamoci pure la constatazione che mentre a suo tempo i siciliani fuggivano dalla loro isola per cercare scampo in America, oggi c’ è chi vede la Sicilia come una nuova America. E’ questa la chiave per intendere la valenza attuale del film di Emanuele Crialese, che non vuol essere una rievocazione storica o una cronaca neorealista bensì il rispecchiamento del fatale andare dell’uomo dal medioevo alla modernità. Si comincia con la scalata di un’erta petrosa sulle Madonie, a piedi nudi e con un sasso in bocca, per porre a Dio dalla vetta la fatale domanda: partire o restare? Alla luce di quello noto come «fattore pull», il richiamo del nuovo mondo dove scorrono fiumi di latte, piovono denari e abbondano ortaggi giganti (Crialese, che ha la vena poetica, fa vedere tutto ), si scambiano gli animali di casa con scarpe e vestiti e si va. A questo punto il film ci regala la più stupenda immagine vista alla Mostra: la nave stracolma si stacca dal porto ed è come se qualcuno tagliasse crudelmente in due un popolo che sembrava compatto; e subito dopo la sirena del battello fa alzare al cielo gli occhi di tutti come la tromba del giudizio. Il pater familias Salvatore (Vincenzo Amato) è un vedovo che posa l’ occhio su Lucy (Charlotte Gainsbourg), una rossetta inglese con la quale imbastisce un idillio intonato alla situazione, razionale e disincantato. La vecchia madre (Aurora Quattrocchi, un monumento antropologico) si rifiuterà invece di modificare i suoi usi e costumi. La traversata include una tempesta, girata con rara sapienza tutta sui primi piani e sui rimbombi come un «Titanic» dei poveri. Segue l’ arrivo nella nebbia («L’ America dov’ è?») e cominciano gli esami tra polizieschi e surreali di Ellis Island e solo i promossi diventeranno americani.

NOTE CINEMATOGRAFICHE

Il film si apre sul pellegrinaggio del protagonista del film. Lui e il figlio portano in bocca un sasso e chiedono un segno divino. Le pratiche religiose, in particolare il culto dei santi patroni, erano tra i maggiori elementi di unione della comunità italiana negli Usa. Restò come tradizione. Della comitiva fanno parte due ragazze che si devono maritare in America. Hanno ricevuto foto inverosimili e i loro futuri sposi promettono meraviglie. Una volta partite, le ragazze non potevano fare ritorno poiché le famiglie riponevano precise speranze economiche su di loro. Molto importante, come sottolineato dalla pellicola, era il momento della chiamata delle donne ad Ellis Island per il matrimonio. Si presentavano con i vestiti tipici, della festa, ma non potevano scappare dalla delusione per le bugie raccontate.

Proprio le donne sole, insieme ai bambini, erano le vittime predilette dal sottobosco di truffatori e speculatori che presidiavano i porti di emigrazione. Abusi, violenze, stupri, imbrogli erano all’ordine del giorno. Molte donne sono state mandate in altri luoghi rispetto a quelli dove erano dirette. Per evitare questa situazione, nacquero organismi che dovevano presidiare e sostenere chi partiva. Vengono fondate le Case dell’Emigrante mostrate anche nel film. A Palermo nasce nel 1907. Era, in sostanza, una “caserma” con controlli medici durissimi. I profittatori, tuttavia, riuscirono comunque a mantenere i loro spazi.

Moltissimi erano coloro che speravano di poter ritornare ricchi un giorno nel proprio paese. Per pagare i biglietti, però, era necessario vendere tutto. I protagonisti devono comprarsi anche gli abiti e le scarpe che non possedevano fino a quel momento. L’unica contraria è la madre, personaggio radicato nella tradizione siciliana, nella superstizione, con poteri medianici che sono tipici di alcune sequenze che potremmo definire di “realismo magico”. Una tal figura femminile è presente anche in una poesia di Giovanni Pascoli, anch’essa centrata sull’emigrazione. Da qua si comprende come non sia un luogo comune, ma una realtà presente alle diverse latitudini italiane.

La nave parte ed è una traversata piene di insidie e pericoli. Spesso, infatti, venivano trasportati da “carrette del mare”, navi in cattivissimo stato igienico e meccanico. Non erano pochi i morti durante il viaggio o i respinti per malattie contratte durante la traversata. Molti i bambini che morivano durante il percorso. I viaggiatori della terza classe, la più umile, erano stipati, divisi per sesso durante la notte, chiusi come bestie a chiave mentre la tempesta sconquassava la nave, terrorizzando i passeggeri che mai, prima d’allora, erano andati per mare.

Il viaggio è anche il primo momento di confronto di coloro che lasciano l’Italia. Ci si riconosce per paese, provenienza, ma è una realtà nuova, sconosciuta per gli emigranti, per la maggior parte contadini senza nessun tipo di istruzione ed esperienza. Il protagonista non sa di essere cittadino italiano, ignora l’esistenza della patria che conosce solo quando l’abbandona. Non sa leggere e scrivere, non ha coscienza sociale.

L’odore, la sporcizia, le condizioni di vita della terza classe sono inimmaginabili. Si lavano solo una volta, in prossimità dell’arrivo poiché sanno che tutto serve per non essere rifiutati, rimandati a casa. Chi saliva a bordo di queste carrette scrive che l’odore era talmente nauseabondo da risultare indimenticabile per ogni essere umano. Una volti giunti ad Ellis Island inizia un preoccupante spazio vuoto, pieno d’attesa, divisi rigidamente tra uomini e donne. I test servono per accertare “l’idoneità” ad entrare negli Usa. Si accettano solo coloro che possono lavorare duramente, veniva rifiutati chi (secondo criteri discutibili che si vedono nel film) risultava affetto da problemi mentali o malattie varie. Il rischio era la divisione delle famiglie.

NOTE STORICHE

Tra il 1880 e il 1930 furono 17 milioni gli italiani che lasciarono il nostro paese cercando fortuna in tutto il mondo. Di seguito riportiamo una tabella che si riferisce al periodo che va dal 1876 al 1913

VENETO 1.822.000

PIEMONTE 1.540.000

CAMPANIA 1.475.000

VENEZIA GIULIA 1.407.000

SICILIA 1.352.000

LOMBARDIA 1.342.000

Come si vede la fuga dalla nostra nazione riguarda tutte le regioni. Solo alcune, però, hanno scelto con maggiore attenzione la strada che portava agli Stati Uniti. Peraltro, in molti sceglievano la via dell’espatrio con la precisa intenzione di far ritorno nelle proprie case. Nei primi anni del XX° secolo il tasso di rimpatrio era del 50%. Le difficoltà di integrazione, il rifiuto degli usi locali o di apprendere la lingua era legato proprio all’idea dell’emigrazione temporanea.

La Liguria fu la regione pioniera nell’emigrazione transoceanica. Tra il 1869 e il 1875 fu il Veneto la regione con più intense emigrazioni. Il sud era poco interessato al fenomeno che si è via via accentuato alla fine dell’ottocento. Pugliesi e siciliani, ad esempio, erano tra i più riluttanti ad espatriare. La situazione cambiò radicalmente dopo l’unità d’Italia e l’imposizione delle leggi sabaude. A spingere all’emigrazione nel sud non fu (solo) la crisi dell’industria e le difficoltà di esportazione di alcuni prodotti per via del protezionismo doganale. Non fu neppure l’innovazione tecnologica che rese difficilissimo contrastare l’avanzata di nuove realtà economiche. Fu, invece, l’insolvenza debitoria (principalmente verso lo stato) a gettare nella miseria milioni di esseri umani spingendoli all’esodo. La scelta degli USA era, quindi, legata alla possibilità di guadagnare molto in breve tempo. Tutto ciò portò ad un vero e proprio boom migratorio tra il 1900 e il 1915. Una volta giunti negli Usa, gli italiani, si stabilivano sulle principali vie di comunicazione: nel 1920 a New York sono in 800.000, a seguire, per ordine di importanza, Chicago e New Orleans. Germinavano cosi quartieri italiani, le “Little Italies”, un mosaico di raggruppamenti in base alla regione o al paese di origine.

Gli italiani vennero impiegati nei lavori più umili perchè erano quasi tutti contadini, senza esperienza di lavoro industriale ed artigianale. A loro venivano preferiti quasi tutti, soprattutto anglofoni e slavi. Inoltre, erano lavoratori estremamente vulnerabili perché non comprendevano gli elementi della vita urbana e metropolitana. Si rivolgevano, di solito, ad un paesano (una specie di “caporale”) che li gestiva, sfruttandoli e derubandoli. Si affidavano a lui completamente. Non c’erano ovviamente solo contadini, ma anche uomini di diversa estrazione sociale e con forte coscienza politica. C’era di tutto: anticlericali, anarchici, sovversivi. Questi ultimi creavano anche organizzazioni sindacali, viste con diffidenza dai sindacati americani. Gli italiani erano, secondo loro, o troppo miti, schiavi, servi oppure troppo radicali, aggressivi

I pregiudizi, peraltro, erano molto forti. Molti protestanti, per esempio li vedevano come un popolo dominato dai preti che rinnegava la vera parola di Dio. A maggior ragione, dopo che giunsero missionari per aiutarli come santa Francesca Cabrini. Tutto ciò portò a veri e propri pogrom antitaliani con la morte di vittime innocenti, capri espiatori di una situazione sociale di crisi e anche forme di razzismo. Ad avvalorare ciò, l’affermazione dei racket, della mafia, conosciuta inizialmente come la “mano nera”.

L’evoluzione degli italiani in America è lenta, ma graduale. Prima i lavori umili, come dimostrato dal dato del 1912 che certifica come 1/3 dei 35.000 stivatori del porto di New York fosse italiano. I meridionali, ad esempio, lavoravano nelle miniere di carbone. Tuttavia, alcuni riuscivano a diventare piccoli imprenditori. Poiché gli emigranti non amavano il cibo americano, era necessario aprire canali commerciali per l’esportazione di alimenti. Si aprì un mercato in cui assunsero un ruolo significativo gli italiani, ma fu nel settore della frutta che i nostri ebbero una posizione dominante.

La prima guerra mondiale, infine, cambiò la situazione, la condizione, la percezione degli italiani presso l’opinione pubblica statunitense. Da allora si può parlare di italo-americani. La guerra decretò anche la fine dei flussi di ingresso liberi. Nel dopoguerra il Congresso approvò diverse leggi restrittive tra cui il QUOTA ACT che rallentarono notevolmente l’arrivo di nuovi gruppi. Nel 1920 gli italiani entrati nel suolo statunitense erano 357.000; nel 1921, dopo il Quota Act, furono solo 42.000.

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1 Response

  1. Johna825 scrive:

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