Giulio Questi – Se non ricordo male

Recensione di un libro su Giulio Questi, scritto da Gianfranco Angelucci su Articolo21.org

Chi ha amato La dolce vita lo ricorda sicuramente, perché nella festa dei nobili che Fellini aveva ambientato nel Castello dei principi Odescalchi a Sutri, Giulio Questi impersonava l’aristocratico debosciato che accoglie con sboccata, indolente sensualità la sua conquista del momento: la bellissima, giocosa, ironica, provocante Nico, giunta simile a una bionda meteora insieme al gruppo di amici della Via Veneto by night. Giulio si trastulla con lei nella lunga e stanca notte di piacere, che straripa nelle stanze del maniero. Fino all’alba, quando l’inflessibile principessa madre richiama i suoi tre figli al dovere della messa mattutina nella cappella di famiglia.

È una delle più avvolgenti e torbide sequenze del capolavoro felliniano, girata dal regista in assoluto stato di grazia, davvero a passo di danza, come avrebbe in seguito affermato Pier Paolo Pasolini per bocca di Orson Welles nel film La ricotta: “Egli danza”. L’ispirazione, l’andamento rapsodico sono mozartiani per divina leggerezza, ma il tempo musicale ricorda piuttosto un arioso valzer di Strauss in cui gli ospiti, vorticando svagati, trascorrono da un ambiente all’altro spiando vizi, debolezze, irrequietudini e cadute di ogni partecipante. Nico (Christa Päffgen, cantante, attrice e modella tedesca), da adorabile e sacrilega buffona si infila in testa un cimiero medioevale, che il fidanzato le strappa via sgarbato; alcune dame formano intorno a un tavolo la catena a cerchio di una seduta spiritica, iniziando per scherzo ma rimanendo presto travolti dentro un drammatico psicodramma; Marcello, il protagonista, improvvisa una dichiarazione d’amore a Maddalena, la ricca e spudorata figlia del palazzinaro; si parlano da un piano all’altro dell’antico edificio sfruttando l’acustica segreta di un fontanile, e mentre lui si infervora nell’illusorio sentimento, lei si struscia voluttuosa a un bel biondone che ne sfrutta l’improvviso cedimento; in cambio il giornalista farfallone si lascia attirare da una piacente tardona americana, con la frezza bianca nei capelli ma gli ormoni in tumulto, e complice l’oscurità la soddisfa in un travolgente cunnilingus: “Pazzo, pazzo…” rantola lei rapita, affondandogli le mani nei capelli.

In questa giostra rapinosa, Giulio Questi sfodera una sorprendente prova di recitazione. Una dote che Fellini aveva intuito incontrandolo per caso una notte a Piazza del Popolo a fianco di Antonioni: “Passa domani in ufficio, ho una parte per te”. Così ha inizio la carriera d’attore del giovane inquieto; presto interpreterà un ruolo anche in Signore & Signori del burbero Pietro Germi che arriva perfino a corteggiarlo: “Come, l’hai fatto per Federico e non lo fai per me?!” Impersonerà uno degli amici scapestrati della provincia veneta, in quell’intreccio di corna e di bon ton in cui i peccati tra le lenzuola debbono rimanere occultati dietro la facciata della rispettabilità.

Giulio in verità era sceso a Roma nel 1950, durante il Giubileo, inseguendo la vaga idea di combinare qualcosa nel cinema, e con quel chiodo in testa non se n’era più andato; aveva già ventisei anni, un po’ troppi per i criteri di allora, e poco o niente denaro in tasca, costretto a una dura sopravvivenza da bohémien. Grazie a un articolo pubblicato dall’Avanti su La terra trema, viene invitato nel palazzetto di Luchino Visconti sulla via Salaria, facendo conoscenza dei suoi assistenti, Franco Zeffirelli e Franco Rosi, ma diventando amico per la pelle solo di Rinaldo Ricci, notissimo aiuto regista a vita.

Domenico Monetti e Luca Pallanch, brillanti studiosi del Centro Sperimentale di Cinematografia, dipanano le numerose ore di conversazione registrate al magnetofono in un’unica torrenziale narrazione scritta, un fiume in piena che scorre dall’infanzia nella campagna bergamasca, ai sette decenni di carriera cinematografica consumati tra Roma e il mondo intero. Un testo avvincente, pubblicato dal CSC e Rubbettino, denso di episodi, aneddoti, descrizioni, ritratti e leggende, che l’autore riferisce con nitido sguardo da rapace, restituendoci l’incandescente crogiuolo creativo dei suoi tempi.

Già partigiano della Brigata Giustizia e Libertà, quando non ha i soldi per la pagnotta, viene ospitato come un membro di famiglia alla tavola di Ferruccio Parri. Entra nel giro Mario Gallo, il produttore socialista che ha militato nella ‘resistenza’, e prende l’avvio dai documentari passando presto al cinema di finzione. Non diventerà mai veramente famoso, ma alcuni suoi titoli restano tuttora di culto: Se sei vivo spara, La morte ha fatto l’uovo (con Gina Lollobrigida, Jean-Louis Trintignant, Ewa Aulin), Arcana. Sono storie alimentate da uno spirito smanioso, controcorrente, provocatorio, vorace di conoscenza e di mistero. Le sue sceneggiature saranno scritte quasi sempre insieme all’inseparabile Kim Arcalli, il leggendario montatore, vulcano di idee scandolose, e non di rado dunque co-autore dei registi con cui lavorava.

Se nel mondo letterario il giovane bergamasco frequenta Elio Vittorini, Edmo Fenoglio, Alberto Moravia, Ennio Flaiano; nell’ambiente dello schermo è assiduo di Marco Ferreri, Valerio Zurlini, Alberto Lattuada, Ettore Giannini (l’autore di Carosello Napoletano), Gillo Pontecorvo, Orson Welles. Ma anche Citto Maselli, e Michelangelo Antonioni, che lo introdurrà nell’ambiente lucroso degli spot pubblicitari.

Sua compagna, e sposa di larghe vedute, la costumista Marilù Carteny, che un giorno stanca della professione, si trasferisce in Colombia e compra un pezzo di terra a Baru, minuscola isola nella baia di Cartagena; ci costruisce sopra una casa e vi si trasferisce. Giulio Questi farà per decenni il “pendolare dei Caraibi” come lo chiamavano gli amici, rifugiandosi per mesi in quel ‘buen retiro’ a scrivere e almanaccare progetti. Godendo a più riprese della compagnia di Garcia Marquez. Intanto insegue instancabilmente i suoi sogni di celluloide; e insieme a Daniele Senatore, rampollo di nobile famiglia e produttore per elezione, inanella vicende picaresche tra New York e Los Angeles, ospite di amici altisonanti, nella residenza al Central Park di Carlo Ponti e Sofia Loren, o nel resort di Fernando Ghia.

Se si vuole aver una percezione verosimile di quale fosse l’avventurosa esistenza dei cineasti da sbarco nei decenni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso, Giulio Questi ne rappresenta la vivente incarnazione, in uno scenario che oggi ci appare inconcepibile. Sono pagine elettrizzanti, scritte con piglio di narratore. Di Fellini, che pure ammira sinceramente, l’autore afferma sicuro: “No, non è nato genio, è solo uno che genio lo è diventato, alla grande.”

Parla di tutti senza peli sulla lingua. Con Pier Paolo Pasolini non si crea tanti scrupoli: “Non mi piacevano i suoi romanzi, non mi piacevano i suoi film. Alcuni di questi li trovavo addirittura brutti. Nei romanzi non sopportavo la mimesi realistica. Un disastro”. Ammira però la persona: “Un corpo agile, un viso magnifico, intelligenza, cultura, sensibilità, passione civile. Una carica di vita incredibile che riversava nelle sue opere di scrittura e di cinema, che ha riversato persino nella sua morte”. Poi aggiunge lepido, consapevole del reato di lesa maestà: “Sento volare pietre e sputi”.

Leggendo questo flusso inarginabile, si incontrano verità condivisibili, per esempio sulla gracilità organica del nostro cinema assistito: “Penso a certi improvvisati produttori del dopoguerra che ipotecavano la propria casa per amore del cinema, che spesso era l’innamoramento per una donna, per un’attrice. Che bello! Un film che nasceva per un atto d’amore, a volte sciagurato! Non è che la rovina del cinema italiano è il finanziamento pubblico? Aiuto!! Mi stanno massacrando!…”

L’enfant terrible ci affida qua e là anche confidenze di prima mano, come quando ricorda Francesca Archibugi, protagonista femminile di Vampirismus: “Una ragazzina sottile, magra, giovane. L’ho ripresa nuda, facendola illuminare in un modo perfetto”. Un nudo integrale improponibile in quegli anni, che i funzionari, spaventati, si affrettarono a tagliare, risparmiando soltanto pochi fotogrammi.

Nella corposa avventura professionale di Giulio Questi ci sarà posto anche per una stagione televisiva, propiziata da Arturo La Pegna; L’ispettore Sarti, con Gianni Cavina, è un prodotto di quegli anni. Impossibile imbrigliare in due paginette un tale galoppo a perdifiato; se non ricorrendo, forse, alla citazione che il narratore ruba impavido al Proust nella Recherche: “La vera vita, la vita finalmente scoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”.

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