Fare le bucce al cinema (Cinema e storia, di Daniele Gaudenzi)

di Gianfranco Angelucci

Esistono libri quasi clandestini, che emanano un profumo più intenso. “Cinema e storia” di cui non conoscevo l’esistenza, mi è stato proposto da Elio Angelucci, il notissimo attore di Forlì, il quale per inciso giorni fa è stato nominato a Roma, per acclamazione, Presidente Onorario della FITA, la Federazione italiana teatro amatoriale. Una vera medaglia appuntata sul petto in riconoscimento della sua lunga, appassionata, instancabile attività a favore delle compagnie dialettali romagnole. Una vita intera spesa senza risparmio al servizio dell’arte scenica, senza mai un interesse personale, spesso senza neppure il rimborso della benzina o della cena a tarda notte; ma in cambio il compenso più alto, insostituibile, l’applauso e la gratitudine di una moltitudine di persone che hanno riso e si sono divertiti ai suoi spettacoli allestiti con il benemerito Cinecircolo del Gallo.

Angelucci è un vero cultore della Romagna, uno spirito dalla curiosità inesauribile, a cui nulla sfugge di ciò che accade nella sua amata terra. Dunque non poteva ignorare questo libro pubblicato nel dicembre 2011 dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» di Cesena (con molte sbadataggini nel testo, ingiustificate per un saggio di tale importanza) e acquistabile a 18 euro. L’autore è Daniele Gaudenzi, vice direttore della Camera di Commercio di Forlì scomparso nel 2001 a settanta anni; e la cura del libro è di Bruno Rassu che ha riproposto una silloge dei cento trentatré articoli pubblicati sul quindicinale riminese “Pagine contro” diretto da Mirella Venturini. Un ingente deposito di notizie cinematografiche, da lasciare stupefatti e affascinati.

Una galoppata di 270 pagine nelle quali con pacato e ironico gusto dissacratorio lo scrittore traccia la sua ‘controstoria’ del cinema, “dall’età fascista al Neorealismo e oltre”, come recita il sottotitolo. E fa giustizia di gran parte dei luoghi comuni, omissioni, menzogne e vanterie di cui si compongono gran parte degli encomiastici compendi dedicati alla Settima Arte. La lettura è saporita e istruttiva, ci si ingolosisce riga dopo riga per la quantità di informazioni che l’autore riesce a far convergere sulla pagina e a intessere in un affresco originalissimo e insospettabile; come fossimo invitati a osservare in trasparenza la vigorosa sinopia celata dietro la vernice di un quadro di maniera. Difficile privilegiare un capitolo sull’altro, sono tutti racconti speziati al punto giusto; ed è impossibile non restare irretiti dalla lunga conversazione con Vittorio Mussolini di cui il giornalista era amico e confidente.

L’intervista sul cinema del periodo fascista, e sul viaggio a Hollywood che il figlio del duce, appassionato di cinema americano non meno di suo padre, intraprende nel 1937 per stringere accordi commerciali con le Major Companies, costituiscono una narrazione densa, circostanziata, sorprendente. Decisa e secca, al suo ritorno a casa, la domanda del padre: “Hai visto Greta Garbo?” “No.” “Allora che cosa sei andato a fare a Hollywood!” L’attrice era una risaputa passione del duce, grande ammiratore di personaggi dello schermo, al punto da evocarli ad ogni occasione. Uscendo una mattina abbigliato in impeccabile stile da statista, si lascia sfuggire con la moglie: “Ormai a portare la bombetta siamo rimasti in tre, io Stanlio e Ollio.”

Vittorio a soli ventun anni aveva attraversato l’oceano sul transatlantico Rex, per invito di Hal Roach, produttore delle comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy, diventato intimo di famiglia e invitato persino alla Rocca delle Caminate per gustare i passatelli di Donna Rachele. Nel 1937, lo stesso giorno in cui Vittorio arrivava in America, il padre volava a Berlino, ricevuto in pompa magna da Hitler per stringere l’alleanza fatale. Il momento non era dei migliori per la missione del rampollo, il quale tuttavia se la cavò bene e fu persino ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Franklin Delano Roosevelt e da sua moglie Eleanor. Il progetto era di avviare la realizzazione di una serie di film tratti dalle opere liriche verdiane, che non avevano bisogno di traduzione. Vittorio era un esperto dell’arte dello schermo – “ne capiva molto” riconobbe Mario Camerini – , presidente di una compagnia cinematografica e direttore della rivista “Cinema”, sulle cui pagine esordirono gran parte dei futuri cineasti divenuti famosi dopo la liberazione.

Ameni gli scorci goliardici, come la battuta su Clara Calamai, interprete di “Ossessione” di Luchino Visconti, rinominata dalla troupe “Clara Mela-dài”. Ma si dischiudono orizzonti inesplorati anche su Doris Duranti, diva del regime e amica di molti, Alessandro Pavolini in testa. E che dire di Anna Magnani, la musa del Neorealismo, che detesta Aldo Fabrizi e litiga con lui per l’intera durata delle riprese di “Roma città aperta?” O del suo assalto erotico passionale a Marlon Brando durante la lavorazione di “Pelle di serpente”, da un dramma di Tennessee Williams; almeno stando alla versione che l’attore affida alle sue memorie, confessando del resto una focosa attrazione per Christian Marquand.

Interessanti le rivelazioni sulla censura di regime assai più blanda di quanto non racconti la vulgata; Benito Mussolini, chiamato ad esprimere il suo “insindacabile giudizio” sulla “Grande illusione”, il film antimilitarista di Jean Renoir, visionò la pellicola e decretò: “Si dia!” Non meno succose alcune vicende sconosciute del dopoguerra; nel 1957 per il remake di “Addio alle armi” di Hemingway, duemila “patrioti” affiliati della “Gladio”, in attesa dell’agognato golpe, vengono intanto ingaggiati come comparse per le riprese! Gladiatori di celluloide.

Troppi sono i passaggi che mi piacerebbe ricordare, per strappare un po’ di falsi miti di dosso a un cinema col vizio dell’autocelebrazione, ma la gran mole di svelamenti non lo consente; e non sarebbe neppure giusto ridurre in frammenti, per quanto ghiotti, una storia così ben congegnata da Gaudenzi, giornalista di nervo e di garbo. Il quale si tratteggia così in un articolo del 1993: “La grande passione che ho sempre avuto per il mondo del cinema risale ai tempi più lontani della mia infanzia e adolescenza. Fra l’altro, la protagonista di “Treno popolare” e la padrona cattiva della pensione di “Umberto D.”, il film di De Sica-Zavattini interpretato dal professor Battisti, era la bionda Lina Gennari, già artista di gran successo nel mondo del varietà coi fratelli Romigioli, sentimentalmente legata ad un giovane Gino Cervi: bene, era cugina di mia madre e veniva a trovarmi coi suoi capelli biondo platino alla Jean Harlow quand’ero un bambino.” Un destino maliziosamente annunciato.

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