Angelo Arpa. Verso il centenario della nascita di Fellini

di Gianfranco Angelucci (da articolo21.org)

Angelo Arpa Servus Jesu, cioè gesuita, passava per il padre spirituale di Fellini, ma era molto di più, era suo amico. “Per vivere gli basta un pugno di sabbia”, ripeteva Federico, compiaciuto e intenerito di figurarsi il gesuita come un anacoreta, un profeta stilita. Quel corpo esile, ossuto, che sorreggeva il volto scavato e la gran corona di capelli bianchi, indomabili, come un nimbo luminoso intorno alla testa, lo rendevano un personaggio un po’ fiabesco, un alone che il regista aveva contribuito ad alimentare. “Angelo capisce tutto, – insisteva – puoi raccontargli qualsiasi cosa, la più intima, la più privata, la più confusa, e sei certo, lo vedi nei suoi occhi, che ha capito, s’è preso lui un po’ del tuo peso”.

Federico era in cerca di assoluzioni almeno quanto padre Arpa era ardente di elargirne. Erano buoni alleati, con vocazioni complementari, nato l’uno per assecondare l’opera divina della creazione, l’altro, stando a una sua esplicita ammissione, “per fare concorrenza al Padreterno”. Ma solo tra le mura di Cinecittà.

Era stato Angelo a suggerire per 8 ½ la sentenza, rimasta proverbiale, che il Cardinale pronuncia tra i candidi vapori del bagno turco a beneficio del protagonista Guido (Marcello Mastroianni) in cerca di una impossibile felicità: “Extra Ecclesiam nulla salus.” Non c’è salvezza fuori della Chiesa. Affermazione attribuita nel film a Origene, un nome dal suono indiscutibilmente cinematografico, prima che l’inflessibile filologia la riassegnasse al legittimo autore, Cipriano di Cartagine.

Malgrado ciò la Curia non gli aveva più perdonato di aver preso partito, con articoli e dibattiti, in difesa di La Dolce Vita, condannata senza appello dall’Osservatore Romano con un titolo a piena pagina: VERGOGNA! Il gesuita aveva subìto serenamente le conseguenze di quella cupa intransigenza; lui innamorato del cinema, costretto dalla disciplina dell’abito a non potersi più esprimere in pubblico, imbavagliato per vari anni, con la minaccia pendente di una esemplare sospensione ‘a divinis’, cioè a non poter più celebrare la messa, se avesse infranto l’obbedienza.

Arpa e Fellini si erano conosciuti alcuni anni prima, nel 1954, al tempo di La Strada, quella favola senza tempo con cui il giovane regista, libero da ogni soggezione alla dittatura ideologia del Neorealismo, era stato capace di portare sullo schermo la novità di un linguaggio poetico senza precedenti.

A Genova Arpa aveva inventato i Cineforum, e i film di quel giovanotto di Rimini gli offrivano materia a profusione per le sue immersioni spirituali. Nell’inquieta ricerca di una cultura nuova che producesse qualche scossa salutare nel provincialismo nazionale, padre Angelo aveva anche fondato il Columbianum, un istituto nato per gli scambi culturali con l’America Latina, una finestra spalancata per far entrare aria fresca in un clima stagnante. Fino a quando, diventato sospetto alle gerarchie politiche, o troppo scomodo, il gesuita che era per costituzione più attento ai programmi di rinnovamento che ai bilanci, nel 1967 venne accusato di illeciti amministrativi, arrestato e trasferito direttamente al carcere giudiziario di Regina Coeli.  Fellini era accorso la notte stessa a Via della Lungara, ottenendo per riguardo alla notorietà di cui godeva che il sacerdote venisse assegnato all’infermeria della prigione e gli fosse risparmiata almeno la mortificazione della cella. Aveva mosso tutte le sue conoscenze personali, fino all’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, perché si facesse piena luce sulla vicenda e il sacerdote riottenesse la libertà e la piena riabilitazione.

Il cineasta era debitore ad Angelo della esistenza concreta del suo film Le Notti di Cabiria, a cui la censura amministrativa dell’epoca aveva negato il visto di circolazione nelle sale nel marzo 1957; una decisione che a quei tempi comportava la distruzione del negativo, cioè una grottesca quanto drammatica e insensata condanna al rogo. Arpa che a Genova aveva avuto modo di guadagnarsi la stima e l’amicizia del Cardinale Giuseppe Siri – porporato potentissimo in predicato per il soglio pontificio nella successione a Pio XII – si era offerto di intervenire per sottrarre l’amico al preoccupante anatema oltre che alle conseguenze di un non irrilevante disastro economico.

Per consentire al prelato di visionare privatamente il film, era stata organizzata una proiezione in una sala cinematografica appartata, nei vicoli dell’angiporto. Federico stesso si era premurato di scovare presso un antiquario della città una specie di trono sontuoso, in foglia d’oro e velluti cremisi, da piazzare in platea quale atto di deferenza alla regalità del personaggio. La lustra berlina nera del cardinale era giunta a mezzanotte, in perfetta segretezza. Non erano stati ammessi altri spettatori all’infuori di Arpa, al quale era stato assegnato il delicatissimo compito di tener desta l’attenzione del Principe della Chiesa in caso di assopimento, ricorrendo a strategici colpi di tosse o cauti sfioramenti, specialmente in coincidenza dei passaggi più edificanti della trama. Il regista era restato in attesa fuori, seduto sul gradino in pietra dell’ingresso, mentre anche dell’atrio venivano spente le luci. Nessuno conosce con precisione cosa si siano detti il sacerdote e il cardinale Siri nel corso della proiezione; si sa soltanto che nella penombra palpitante della sala, alle ultime battute del film prima che si riaccendessero le luci, il porporato avrebbe mormorato: “Bisogna fare qualcosa per la nostra povera Cabiria.” Bastarono quelle poche parole riportate nei corridoi giusti, perché nello zelo del regime democristiano il decreto di censura sparisse per incanto.

Ne fece tuttavia le spese una sequenza di ‘carità laica’ denominata ‘L’uomo del sacco’ (interpretata dal montatore del regista, Leo Catozzo) che recava disturbo all’immagine di Roma; e non faceva onore a nessuno, né ai partiti al governo impegnati nella ricostruzione, e con il boom economico alle porte, né tanto meno a Santa Madre Chiesa patrona della Città Eterna.

Intanto si era stretto, come in un romanzo, il sodalizio tra Fellini e Padre Arpa, durato tutta la vita a dispetto dei partiti di sinistra che attribuivano a quell’insolito bazzicare con i preti la scarsa sensibilità del grande regista verso le problematiche sociali: troppo individualista e conciliante con il nemico di classe, oltre che ambiguamente consolatorio nei confronti della vita.

Al contrario fu in quell’occasione che Giuseppe Siri imparò ad apprezzare la profondità di ispirazione di Fellini; e di nuovo si schierò a favore dell’artista, tre anni dopo, all’esplosione dello ‘scandalo’ sollevato dalla Dolce Vita, permettendo (e forse incoraggiando) una recensione positiva del film sul quotidiano cattolico genovese il “Nuovo Cittadino” (6 febbraio 1960); in aperta controtendenza con l’anatema senza appello lanciato dall’organo di stampa della curia vaticana.

Proprio in quegli anni iniziò a incrinarsi il rapporto tra Giulietta e Federico, come viene raccontato quasi dettagliatamente nel film successivo 8 e ½. I due interpreti della trama, Guido e Luisa, sono arrivati a un punto di rottura con l’unica prospettiva di separarsi, di lasciarsi definitivamente. Esattamente come stava accadendo nella vita reale della coppia avviata ormai a una decisione irrevocabile.

Michelangelo Antonioni aveva offerto a Giulietta il ruolo di protagonista nel film La notte, ma lei rinunciò; spiegherà in seguito di aver avuto paura di vivere sulla propria pelle, sia pure in una finzione, la parte della moglie che assiste al crollo del proprio sogno matrimoniale. Dunque l’attrice sospettava, anzi temeva, che la vicenda de La Notte ricalcasse non troppo velatamente la sua crisi con Federico. Aggiunge anche, per estrema onestà, che temeva di interferire con il successo della Dolce Vita, un film da cui “il marito l’aveva esclusa”. Usava proprio questa espressione, “esclusa”.

Federico si stava veramente allontanando da lei o era tutta una costruzione della sua immaginazione inquieta? I loro rapporti personali si erano spenti, come capita a Giovanni e Lidia, i due personaggi di Antonioni che non provano più gelosia l’uno per l’altra al punto di mettere apertamente in mezzo una terza persona oggetto di desiderio?

Si assunse Padre Arpa il buon ufficio di intervenire nella crisi matrimoniale, farsi buon avvocato di lui per proteggere anche lei in un processo a porte chiuse, senza giudici e senza giurati. Il gesuita parlò come sapeva parlare, da incrollabile uomo di fede, da filosofo, da fratello, da profondo conoscitore della vita, da artista che aveva scelto Dio come il più sublime strumento di espressione dell’animo umano. Se a lei, Giulietta, era stato assegnato il compito di stare accanto a un genio capace di realizzare opere tanto importanti per l’umanità, forse era perché senza di lei quei capolavori non sarebbero mai germogliati, non avrebbero mai visto la luce. Giulietta era una credente di grande cuore, rispettosa dei sacramenti, affidata all’Altissimo. Federico voleva con tutta l’anima che la moglie gli restasse accanto e che il loro patto non si sciogliesse. Contava unicamente la loro reciproca complicità e salvezza, il resto era rumore e noia. Giulietta rimase.

Potrebbe piacerti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Email