Rispolveriamo una “lettera” scritta da Gianfranco Angelucci nel 2011 a Terry Gilliam, La pubblichiamo perché ricostruisce la carriera di un grande regista.
Caro Terry Gilliam,
è una bella notizia che il premio della Fondazione Fellini quest’anno venga assegnato a lei. Non perché il suo talento abbia bisogno di ulteriori riconoscimenti, ma perché appagherà la schiera dei suoi ammiratori, di cui faccio parte. Per di più corre voce oltre Atlantico – la patria d’origine a cui lei ha rinunciato per assumere la cittadinanza inglese, sulle orme di Stanley Kubrick – che sarebbe sua seria intenzione dedicarsi al “Viaggio di G. Mastorna”, il misterioso progetto mai realizzato da Federico Fellini. Si parla di una sceneggiatura già in corso d’opera, sulla scorta della novelization apparsa tre anni fa per Quodlibet a firma di Ermanno Cavazzoni, docente di estetica all’Università di Bologna e ispiratore del film “La Voce della luna” con il romanzo “Il poema dei lunatici”. L’intera iniziativa non potrebbe essere in mani migliori. Come ultimo sceneggiatore di Federico, negli anni Ottanta sono stato ripetutamente coinvolto nel progetto del Mastorna, che ho letto e riletto a ogni nuovo ritorno di fiamma dell’autore; anche in occasione di un confronto a tre che comprendeva Angelo Arpa, il padre gesuita considerato complice e alleato nelle avventure più eterodosse di Fellini.
Fu subito prima che il regista si imbattesse nel libro di Cavazzoni, grazie al quale si riaccese in lui il desiderio di tornare a un tema mai abbandonato, il mondo dei manicomi, un’esplorazione più ravvicinata della follia. Federico ne inseguiva la traccia fin da quando si era innamorato del romanzo di Mario Tobino Le libere donne di Magliano, di cui in Fondazione esistono persino significativi schizzi preparatori.
Del resto la figura del ‘matto’ compare nella sua opera fin dalle primissime prove. Lo strampalato “Giudizio” di Amarcord era già presente nell’ingenuo carrettiere a cui viene affidata ne I Vitelloni la statua lignea dell’angelo, trafugata da Fausto nel negozio di arredi sacri. Giudizio è il “candido”, il povero di spirito, a cui il Vangelo promette il regno dei cieli, e nella visione di Federico l’innocenza di cuore e la Grazia vanno spesso di pari passo. Basti pensare a La strada e alla tragica pazzia di Gelsomina. Nell’ultimo film La Voce della Luna, la figura del matto si sdoppia nella giovane coppia di barboni, ignari di tutto, che conclude la storia ballando nella piazza deserta quando ogni altro evento è consumato. Giudizio sotto aspetti differenti era presente su ogni set di Fellini, reclutato in spoglie umane tra le comparse e foraggiato a dovere per tutto il tempo delle riprese; incarnava anche un portafortuna, il fool, il genietto scacciaguai.
In ogni caso rappresentava per l’artista un costante richiamo all’altra sponda della mente, a quella vita parallela in cui si cela forse la nostra salvezza. La dissociazione psichica non è assente neppure nel Viaggio di Mastorna, dove il mondo altro, sconosciuto, non è certo che sia un Aldilà in senso dantesco; più semplicemente parrebbe alludere a una dimensione diversa di cui l’innocenza ci fornisce la chiave di accesso. Un’ipotesi già emersa nell’abbozzo di trattamento che avevamo preparato per uno dei block notes, come Federico amava definire i progetti dell’ultimo periodo. In esso intendeva raccontare le ragioni della sua resistenza a raccontare l’Inferno di Dante, rifiutando le lucrose offerte che alcune Major Company americane gli rivolgevano da svariati anni. Fellini è passato a miglior vita senza che questo materiale magmatico riuscisse a condensarsi in una forma concreta. E ora la prospettiva che una sfida tanto delicata passi nelle sue mani, caro Gilliam, è seducente; ci piace immaginare che con il suo aiuto si infrangerà un sortilegio.
Quando lei girava a Cinecittà “Le avventure del Barone di Munchausen”, su consiglio di Fellini aveva scelto come scenografo Dante Ferretti, eccellente professionista cresciuto alla scuola del regista riminese fin dal “Satyricon”. Con tale scambio si istaurò così una complicità di bottega con Fellini che lei dichiara di considerare, soprattutto per il film Otto e Mezzo, un nume ispiratore del suo prodigioso Brazil (1984). Ancora oggi Aquarela do Brasil, il tema musicale languido e sensuale del film, in aperto contrasto con le immagini angoscianti di un mondo senza più libertà, ha il potere di attrarmi in una sfera ultrasensoriale, di confine. Sono convinto che lei, al pari del protagonista Sam Lowry, possieda le ali per azzardare qualsiasi trasvolata.