Tonino Guerra, il venerabile

di Gianfranco Angelucci

Ce l’aspettavamo. L’età, la malattia non lasciavano presagire altre stagioni fiorite. Eppure che Tonino se ne sia andato resta poco credibile. Come se da un momento all’altro fossero spariti i mandorli dal suo giardino di Pennabilli che all’inizio di ogni primavera circondavano la casa di una nuvola di petali bianchi. Guerra ci ha abituato, un po’ per volta, a considerarlo eterno, indistruttibile, come l’uomo delle favole che appare quando lo evochi. Lui stesso ha contributo con astuzia e sapienza a costruire questa leggenda, scegliendo per la sua lunga e felice vecchiaia una cornice da presepio, una residenza in cima a un cucuzzolo, in bilico tra Marche e Romagna, dove bisognava arrampicarsi per raggiungere il saggio della montagna. Poi con un tocco esotico, una pennellata di colore simile alle sue figurine naif, si è messo accanto una moglie russa, Lora; che non è Lara del dottor Zivago soltanto per un piccolo scarto, giusto il cambio di una vocale. La loro storia d’amore non essendo meno romantica, iniziata per un incontro casuale al Festival di Mosca in occasione della presentazione di “Professione Reporter” di Michelangelo Antonioni. Qualche tempo dopo il poeta si era ammalato: un tumore benigno al cervello che premeva sotto la scatola cranica, lo aveva fatto girovagare senza più memoria per le strade della Capitale. S’erano messi di mezzo Fellini e Giovanni Berlinguer con le loro conoscenze, Tonino era stato trasferito in Russia in tutta fretta con un Tupolev, e consegnato nelle mani di Alexander Konovalov, il più grande neurochirurgo del mondo. Era stato operato in tempo, salvato, e restituito alla vita per molti decenni. Un miracolo! Guerra, che ostentava di essere una coscienza laica, non dico materialista ma quantomeno poco incline alla credulità dei prodigi, dopo quel brutto inciampo si era attrezzato con la minuscola icona di San Serafin, un santo minore sul tipo di quel San Gancillo di Dino Buzzati, disoccupato perché i devoti si erano dimenticati di lui a non gli rivolgevano più le suppliche. A San Serafin aveva affidato i suoi giorni: “Era un piccolo santo, anche mezzo gobbo, parlava con gli orsi e dava loro il miele; mi chiedo se non sia più lui ad aver bisogno di me, ma la notte mi tiene compagnia”. L’umile santo contadino vegliava sorridente dal comodino, era l’amico buono dell’Aldilà, che al momento giusto viene a raccogliere l’anima e a guidarla lungo i sentieri celesti.

Dal suo eremo di Pennabilli, dopo aver lasciato Roma e rinunciato a rientrare stabilmente a Sant’Arcangelo, Guerra ha distribuito poesia a profusione, con gesti ampi, da provvido seminatore. Non soltanto quale autore di versi indimenticabili, che non ha mai smesso di costruire, giungendo perfino a riscrivere da capo l’Odissea, una bella sfida!, ma donando sostanza poetica alle invisibili molecole dell’intera valle, all’aria, ai sassi, agli alberi, ai corsi d’acqua. Aveva provato a convincere la gente che la poesia non è soltanto quella che si legge nei libri, ma è la misura del nostro sguardo, la rivelazione del creato, e il suo rispetto. Anzi, senza la poesia, il mondo non esisterebbe affatto, perché è il Verbo, come affermano le scritture, che “in principio” crea esseri e oggetti donando loro un nome. Così Tonino aveva insegnato a utilizzare la poesia anche come un medicamento, una profilassi contro la bruttura che ci circonda. Utilizzando tra le prime prescrizioni taumaturgiche il vaccino della memoria. E aveva recuperato “il giardino dei frutti perduti”, un orto di rari alberi da frutta scomparsi ormai dalle campagne, e quindi dalla vista e dal gusto degli uomini. La sua idea aveva ottenuto un divampante successo; venivano da tutta Italia a visitare il giardino incantato, scoprendo che la cancellazione dei frutti stava ad annunciare una sciagura non meno grave delle pagine strappate via da un dizionario. Vale a dire un’umanità a rischio di ripiombare allo stadio primordiale, quando era impossibile esprimersi a causa della mancanza di parole, nessuno sapendo in che modo chiamare l’amore, i fiori, i colori, il sole e la luna. Sarebbe ritornato il buio della mente, uno spettro da contrastare ad ogni costo, con ogni mezzo, senza mai stancarsi di intrecciare con dita leggerissime visioni, suoni, parole, e voci del passato. Questo era il messaggio che la poesia di Tonino Guerra riversava nella Valmarecchia, a onde circolari che si propagavano rapidamente all’intero Paese. Bisognava imparare da capo a guardare il mondo attorno a noi, con diversa attenzione e carità, con altro rispetto, respingendo ogni abuso, ogni stupro insensato. A difesa non soltanto del paesaggio, ma delle acque, dei sassi dei fiumi, del vento, dell’opera dell’uomo quando essa era ancora in armonia con l’ambiente, e non lo deturpava con forme e materiali in spregio alla cultura del luogo. Grazie a lui la convinzione che sia possibile salvare il creato iniziando con il preservarne la bellezza, in tutte le possibili espressioni, è diventata per molti il contrafforte di una resistenza pacifica e poetica, la trincea da contrapporre all’invasione della nuova barbarie. Tonino era il guru di questo movimento non proclamato, spontaneo, e pertanto ideale per espandersi a piacimento, incontrollabile. Le sue proposte volavano nell’etere, sulla bocca di tutti, sempre controcorrente. Al posto dei treni a grande velocità vagheggiava trenini lentissimi che risalissero la costa romagnola spiaggia dopo spiaggia, restituendo ai suoi passeggeri quel sentimento di gioia confusa, indecifrabile, che si provava da bambini, d’estate, quando venivamo condotti al mare. Immaginava scompartimenti allegri, ricolmi di figure, di poesie, di piccole opere d’arte che destassero la curiosità di chi viaggiava, raddoppiando il piacere degli occhi già stupefatti dallo spettacolo che scorreva oltre i finestrini. Il venerabile poeta ogni giorno partoriva un’idea nuova, quasi sempre sottilmente inebriante, geniale, rivolta al recupero sistematico di una vita migliore di quella a cui ci siamo malinconicamente rassegnati. Aveva lanciato per esempio il progetto più estroso e originale per celebrare degnamente Federico Fellini: affidare ogni anno la commemorazione a un grande regista di una nazione straniera, la Spagna, la Francia, gli Stati Uniti, il Brasile, l’India, il Giappone; e recuperare in quel modo anche tutte le testimonianze che nel tempo si erano sedimentate in quel Paese. Una strategia per ricollocare l’Italia, e Rimini, al centro del mondo, sulle ali dell’artista più importante della nostra epoca. Inseguiva l’armonia perduta e contagiava affettuosamente chi andava a trovarlo, o già lo frequentava. Il film di Fellini “Prova d’orchestra” a cui aveva collaborato, era appunto la profezia sul disastro che ci attende se ogni orchestrale pretende di suonare per proprio conto, senza più accordare tra loro gli strumenti sotto la guida di un direttore dritto sul podio. E quella gigantesca sfera di acciaio che al momento del massimo furore iconoclasta dei professori d’orchestra abbatte la parete dell’oratorio riducendolo a un ammasso di polvere e macerie, era stata, diceva, una sua intuizione. Però me lo confidava abbassando la voce, con il bisbiglio di un’antifona. E si riprometteva di mostrarmi un appunto che aveva a suo tempo inviato a Federico, un disegnino con quella trovata. Come le sorgenti del Nilo anche le fonti della poesia sono spesso sfuggenti, irraggiungibili, al contrario dei suoi benefici effetti: nei peggiori anni di piombo quel film miracoloso aveva saputo donare al pubblico il nepente per una riflessione ineludibile e galvanizzante. Così come era avvenuto sei anni prima con “Amarcord”, l’opera dell’identità e della memoria, che aveva fatto conoscere Rimini in tutto il mondo, e aveva conquistato il Premio Oscar.

“Abbiamo bisogno di incontrare il mistero, i misteri sono i luoghi dell’anima.” Ripeteva Tonino nelle riunioni pubbliche; proponendo, inascoltato, le sue dolci, risananti utopie; per esempio che la domenica mattina nella sua Sant’Arcangelo venisse diffusa musica classica dal balcone del Comune, e una formazione di strumentisti virtuosi eseguissero temi immortali per deliziare il passeggio delle famiglie, accarezzarne lo spirito, le orecchie e l’esistenza. Al centro del suo universo poetico era ormai sbocciata una predicazione laica e francescana insieme, in grado di trasmettere universalmente la religione dell’esistenza . Per questo “La bellezza che salverà il mondo”, in cui credeva il principe Miškin ne “L’Idiota” di Dostoevskij, era diventato anche il suo orizzonte.

Sono andato a recuperare un piccolo regalo di Tonino, un libretto senza nome che mi diede non so quanti anni fa: poche pagine di dieci centimetri per dieci, scritte a mano e trattenute con uno spago; contiene brevissimi versi, lampeggianti, su ogni mese dell’anno. Marzo è ricordato così: “I fiori dei mandorli per le api affamate.”

Marzo è il tuo mese Tonino, della tua nascita e della tua scomparsa; e per fortuna le api affamate dei tuoi fiori comporranno intorno a te uno sciame sempre più grande.

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