Tonino Guerra. Un allegro funerale.

di Gianfranco Angelucci

Sarà stata la pioggia di fotoni che scendeva dal cielo terso e assolato; sarà merito delle due piante fiorite di ciliegio che il sindaco di Sant’Arcangelo, seguendo l’arcano, aveva fatto disporre ai lati del catafalco nella Piazza Grande gremita di folla; sarà stato quel fazzoletto di prato verde disteso intorno al Monumento ai Caduti, timido anticipo dell’impegno formale assunto con il Poeta, una promessa!, di trasformare in un giardino il centro della piazza; voglio aggiungere anche la giovane età dei due sindaci, di Sant’Arcangelo e di Rimini, entrambi in fascia tricolore, entrambi in abito serio ma informale, che evocano assai poco il grigiore di una classe politica in demolizione, e lasciano sperare in un futuro migliore sia pure nell’incertezza; sarà stata la presenza di Sergio Zavoli, elegantissimo e seducente come il timbro della sua voce intatta, autentico gentiluomo nei modi e nello stile, venuto a commemorare l’amico con un discorso intimo, quasi privato, poco orazione funebre e assai più riflessione sulla poesia; infine giocherà la sua parte la suggestione letteraria che fin dai tempi di Petronio Arbitro, raccontato da Fellini nel Satyricon, ci induce a considerare la morte del poeta come un invito eucaristico, cioè di ringraziamento e condivisione di una sostanza immateriale che ci rende eterni, o quantomeno assai più longevi della nostra stessa vita; sarà ancora quell’immagine di Tonino Guerra che si abbandona a una risata di cuore nella gigantografia trasferita insieme al feretro dalla camera ardente alla piazza; ma sarei un cronista infedele se non testimoniassi che l’addio a Tonino della sua Sant’Arcangelo è stato un rito gioioso, e allora usiamola pure la parola scandalosa, allegro. Soprattutto perché non c’è stato nessun addio; i santarcangiolesi e gli altri presenti alla cerimonia di commiato, sicuramente un paio di migliaia, avevano ognuno, singolarmente, la certezza che Tonino si fosse soltanto moltiplicato nelle molecole dell’aria, e tutti erano in grado di respirarlo come un balsamo. In perfetta consonanza a ciò che aveva profetizzato il Poeta nelle ultime parole prima di spegnersi: “Sarò più utile dopo”. Oggi l’impressione era proprio che ciascuno portasse con sé un frammento del suo testamento, ne avesse assimilato la volontà. A cominciare dai due sindaci, per nulla impensieriti anzi eccitati dal legato ricevuto, di dover mettere in pratica gli insegnamenti del Maestro. Andrea Gnassi, un primo cittadino già post moderno, permeato di creatività, non nasconde l’adrenalina che lo anima nella sfida: “L’eredità che Tonino ci lascia mi fa paura, consapevole che viviamo in un contesto, in un Paese, in cui sembrerebbe non esserci spazio per le sue intuizioni, per i suoi pensieri, per le sue speranze, per il suo ottimismo. Vorrei nascondere un tale sentimento di paura giustificato da una società non più abituata a proteggere questi valori; e invece me lo tengo stretto, perché è una paura carica di energia, contiene in sé la spinta a tradurre ogni sua poesia in un’azione concreta, in un’opera che aiuti a trasformare in meglio la nostra vita quotidiana. Non so come sarà possibile ma ne avverto la misteriosa riserva rigenerante. C’erano tre metri di neve a Novafeltria quando sono andato a trovare Tonino in ospedale, chiamato da lui; era disteso nel letto, oltre i vetri della finestrella in fondo alla stanza si alzava un muro bianco e ancora più in là si intravvedeva la vallata immacolata; Guerra era avvolto in un maglione, aveva scritto di sua mano un bigliettino che mi ha consegnato e su di esso, con una calligrafia dell’Ottocento, c’erano segnati gli otto punti sui quali cercava il mio impegno e la mia alleanza.” Gnassi riferisce l’episodio ancora riverberato, come se per un istante, e per prodigio, avesse abitato dentro la luce stessa della poesia e da allora ne facesse ineludibilmente parte. Il dialogo con lui esprime esattamente l’emozione che si provava a fior di pelle. Ho assistito alla cerimonia dal balcone del Municipio, in una posizione elevata che mi permetteva di osservare gli avvenimenti da una prospettiva leggermente straniante, eppure con una visione nitidissima: ecco la bara che arriva, i necrofori che sistemano il cofano trasparente; una fila di sedie di velluto rosso per le persone di famiglia, per Lora che oggi sembra un fantoccio svuotato, persino il sorriso, il suo bel sorriso russo, appare meccanico; chissà dove aleggia con la testa. La sua corona di tenere rose bianche porta scritto nella fascia: “Al mio marito e maestro. Tua moglie”.

Il presidente della “Fondazione Tonino Guerra”, Carlo Sancisi, è il primo a parlare. Segue Mauro Morri il sindaco di Santarcangelo, che espone i suoi argomenti con la delicatezza esitante di uno studente commosso, parla di Tonino come di un genio e la voce gli si incrina. Poi si alza Zavoli; tiene tra le mani i fogli del suo discorso, ma si avverte che vorrebbe ripiegarli e riporli nella tasca della giacca da cui li ha sfilati; inizia infatti parlando a braccio, rivolgendosi direttamente all’amico, con voce pastosa e bassa, e il vento, da quella distanza, si porta via metà delle parole che rimbombano dagli altoparlanti. Quando comincia a leggere, ma senza mai smettere di interpolare il testo con continue annotazioni che affiorano al momento, scende un silenzio da chiesa, la piazza diventa un santuario, l’orazione è una preghiera in forma di poesia. O viceversa. Perché ripercorre la nascita stessa del talento di Tonino Guerra, in prigionia, quando le parole in romagnolo diventano per lui e i suoi compagni di sventura prezioso alimento di sopravvivenza; e poi l’espandersi di quell’urgenza, e la stampa del primo libro “I bu”, i buoi, che rivelano al mondo una nuova, originalissima voce, nella quale è possibile riconoscersi con facilità. Zavoli ricorda l’amico a braccetto col Dalai Lama, a Pennabilli, come se le alte balze del Tibet si fossero incontrate con “i declivi dell’Alpe romagnola”. E quando si arriva a Dio, inevitabilmente, le sue parole sfiorano in un brivido Pascal ma citano quell’anziano contadino che messo alle strette: “Insomma Eliseo, il Padreterno c’è o non c’è!”, aveva risposto a Tonino con la saggezza di un oracolo: “Cosa vuole, se le dico che c’è, mi sembra una bugia; ma se le dico che non c’è mi sembra una bugia ancora più grande.”

A mezzogiorno in punto, con il sole allo zenit e gli ultimi saluti delle autorità, la cerimonia ha termine. Il feretro si avvia a Pennabilli; nella piazza la folla esita a diradarsi, indugia in cerca di un appiglio; gli occhi sono lucidi ma i volti sorridenti. E’ stata una bella festa, non è vero Tonino? Una bella messa. Mi è sembrato che in tanti si allontanassero dal luogo attraverso un portale invisibile, con quella leggerezza compunta di chi ha appena preso la Comunione.

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