Un provinciale e la Grande Bellezza

di Giovanni Scolari

Paolo Sorrentino ha vinto l’Oscar. La grande bellezza ha trionfato come miglior film straniero, ridando un successo che mancava da 15 anni alla cinematografia italiana. Il film ha vinto perchè è un grande film, ingiustamente sottovalutato poichè la sua fonte di ispirazione (volente o nolente) era un’opera immortale e fondamentale della storia del cinema, La dolce vita.

D’altro canto lo stesso Sorrentino ha omaggiato esplicitamente Fellini durante il ritiro del premio mettendolo al primo posto del suo Pantheon personale. Viene spontaneo paragonare la lista del regista italiano a quella fatta da Woody Allen in Manhattan quando si scervellava per dare una graduatoria esatta ai suoi gusti. E senza scomodare McLuhan, il saper mescolare il sacro (Fellini) con il profano (Maradona) – o è il contrario? – è una delle note dell’autore italiano.

Mentre leggevo le critiche che molti gli rivolgevano nei mesi scorsi, non potevo non paragonarle con quelle che erano rivolte allo stesso Fellini nel 1963. Si diceva che era il ritratto della nobiltà visto dal buco della serratura, dallo sguardo ammaliato del provinciale, della servitù di palazzo. Si diceva che non era la Roma reale, che si partiva da una serie di stereotipi. Non sembrano gli stessi strali rivolti a Sorrentino?

Vale la pena dire che La dolce vita era di un altro pianeta poichè aveva una compattezza, una forza devastante che a questo film manca. Inoltre, Fellini aveva saputo anticipare tutti i motivi della crisi dell’Italia del boom. Mentre ancora si urlava al miracolo economico, lui indicava che la presunta agiatezza si poggiava su fondamente marce, su un imbarbarimento della vita, dei costumi, del pensiero. Questo a Sorrentino manca, lui ha saputo ritrarre la decadenza, ma dopo che questa era già avvenuta. Non è una sua colpa (nessuno si sceglie il periodo in cui operare), ma un limite contingente che, forse, gli ha impedito di essere altrettanto immortale.

Tolte queste osservazioni, bisogna sottolineare le straordinarie virtù di questo film. Sorrentino sa muovere la macchina in modo maestoso, costruisce le scene come nessuno in Italia e come pochi al mondo. Ha creato personaggi bellissimi, aiutato da un cast di attori a proprio agio, nessuno escluso, in queste maschere sconfitte e disperate. Jep Gambardella è una personalità illuminante, è un Marcello post lettera, la sua constatazione del fallimento umano e personale. Tuttavia, ha un’umanità commovente, uno sguardo aperto sul mondo proprio perchè sconfitto e impotente. Tutti sono molto bravi, ma Carlo Buccirosso è ancora una volta incredibile. Solo Sorrentino gli ha saputo dare lo spazio che merita.

Ci sono poi scene di grandissimo impatto. La morte di Ramona (Sabina Ferilli) è narrata con un’ellissi cinematografica straziante. Forse è il momento più bello, più struggente. Così come struggenti sono le passeggiate di Jep, accarezzato dalla macchina da presa, mentre cerca di dare un senso a ciò che accade.

Non credo che Sorrentino abbia avuto la presunzione di raccontare Roma. Piuttosto penso che abbia cercato di raccontare se stesso in un’altra dimensione. Cosa sarebbe successo se avesse abbandonato la strada della propria vocazione artistica per rincorrere il vacuo? Cosa, se si fosse lasciato condizionare dal desiderio di notorietà, di visibilità piuttosto che affrontare i propri fantasmi nella ricerca di un’immagine, di una storia?

In fondo, il percorso è identico per tutti. Si ritorna a casa per morire, per chiudere la propria esistenza.

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