Lo champagne è finito (007 Skyfall)

di Gianfranco Angelucci

E’ singolare che mentre nelle sale esce Skyfall, 23° episodio della serie 007 ispirata ai romanzi di Ian Fleming, in libreria giunga “Miele”, ultimo romanzo di McEwan (anch’egli di nome Ian) ambientato al tempo della guerra fredda nella stessa celebre MI6, la sezione di controspionaggio inglese. Due capolavori in cui serpeggia una palpabile nostalgia per l’epoca in cui il mondo era diviso in due blocchi contrapposti, due ideologie, due concezioni di vita. Chiunque sapeva con quale parte identificarsi e solidarizzare. Stati Uniti contro Unione sovietica, una sfida aperta persino nello spazio tra Apollo e Soyuz, a chi per primo avrebbe calpestato lo strategico suolo lunare. Kennedy e Kruscev recitavano coscienziosamente la loro parte attenti a spuntarsi le unghie senza farsi troppo male. Afferma un personaggio del romanzo di McEwan a proposito della corsa dissennata all’arsenale atomico: “Queste nuove, spaventose armi si possono controllare soltanto con un equilibrio del potere, con la paura reciproca, il reciproco rispetto. Solo così si può garantire la pace.”

Oggi che questa logica rassicurante è da un pezzo svanita, nessuno sa più chi sia il nemico; persino il terrorismo internazionale è sfuggente, facile strumento in mani occulte. Con un occhio al caso Julien Assange e alla diffusione da parte di Wikileaks di informazione protette dal segreto militare, la nuova avventura di James Bond prende l’avvio dal trafugamento di un disco rigido contenente i nomi di tutti gli agenti NATO infiltrati nelle organizzazioni terroristiche e criminali della Terra.

James Bond corre ai ripari per sventare le conseguenze devastanti, impegnato ancor prima dei titoli di testa in un mirabolante inseguimento in motocicletta a Istanbul sui tetti del Gran Bazar. Sequenza sbalorditiva, al cardiopalma; ma al posto di uno scanzonato guascone alla Sean Connery, c’è ora la faccia tragica di Daniel Craig, occhi arrossati, portamento proletario, di chi tira la carretta in un mestiere sporco e maledetto. Il duello con il rivale è all’ultimo sangue, come sempre, eppure questa volta è lui a soccombere, centrato in pieno dal fuoco amico di una collega che ha ricevuto via radio da M, il gran capo, l’ordine di sparare con il rischio di ucciderlo. 007 esce di scena e la situazione precipita; un attentato a Londra colpisce in pieno il quartier generale dell’Intelligence Service; M che ha le pupille gelide di Judi Dench, viene chiamata a rapporto dal suo superiore gerarchico (Ralph Fiennes) che le preannuncia il benservito. E quanto avviene in seguito sarà per lo spettatore materia di puro godimento. Perché il colpo di genio della produzione è stato di affidare il film non a un mestierante del genere ma a un regista britannico di gran classe, Sam Mendes, 47 anni, già autore di “American Beauty”, “Era mio padre”, “Revolutionay Road”.

E Mendes stravolgendo gli stereotipi, trasforma la storia d’azione in una straordinaria metafora dei nostri tempi privi di gioia e di certezze. Le città esotiche appaiono sfolgoranti viste dall’alto, ma nascondono cuori di tenebra; le ragazze seducenti e perverse sono altrettanti fantocci sexy paralizzate dal terrore; il malvagio di turno, qui interpretato da un dolente Javier Bardem, agisce in un alone di giustificata crudeltà simile al folle Jocker di Batman. L’ambientazione notturna è tetra, i funzionari della MI6 si comportano da ottusi replicanti, gli stessi agenti segreti sono grigie pedine su uno scacchiere in cui la loro vita non ha alcun valore. Eppure in questo scenario di disfatta generale, in un’umanità senza redenzione, ancora una volta il bene prevale, poco appariscente ma inestirpabile finché ci saranno in campo un James Bond, un M e una nazione a schiena dritta come l’Inghilterra. Dopo aver scampato per miracolo all’annegamento, 007 riesce a salvare M che lo apostrofa: “Ce ne ha messo, Bond, ad arrivare.” E lui impassibile: “In effetti, stavo per affogare in un bicchier d’acqua.”

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