La rappresentazione fisica di un fallimento (La regola del silenzio – The Company You Keep)

di Gianfranco Angelucci

Robert Redford è molto invecchiato per interpretare un ex pacifista in odore di terrorismo dei primi anni Settanta (un Adriano Sofri californiano), vedovo e padre di una figlia undicenne. L’immagine sfalsata grava sulla storia (tratta da un romanzo e da lui diretta e… interpretata) rendendola alquanto irreale. Julie Christie, la sua complice a amante del tempo che fu, a causa del bisturi invadente, poco ricorda gli occhi azzurri e le labbra turgide dell’irresistibile Lara del Dottor Zivago, che alla domanda insinuante di Komarovski replicava con visibile turbamento: “Ho diciassette anni, monsieur…”  Per i suoi innumerevoli adoratori sarebbe bastata anche soltanto l’ombra di quel sorriso!

Meglio se la cava Nick Nolte, irrimediabilmente franato dal suo metro e ottantacinque, ma sempre lui, nei panni di un irriducibile, simpatico ribelle che impiega nella segheria molti ex compagni di una rivoluzione mai avvenuta. Tuttavia se si supera il leggero spaesamento iniziale, il film risulta singolare proprio per questo, nel porre la parola fine su un’ormai remota stagione di utopie, rappresentandone organicamente – nelle facce, nei corpi, nell’incedere barcollante – lo sfacelo.

Ed è avvincente per merito degli attori, tutti bravi, a cominciare dal protagonista Jim Grant, che da un pezzo vive a Albany (NY) sotto falsa identità, svolgendo onorevolmente la professione di avvocato. Ma la giustizia americana non dimentica. A una pompa di benzina viene pescata e ammanettata una militante del gruppo eversivo (Susan Sarandon) dalla quale non sarà difficile risalire ai complici di allora colpevoli, durante una rapina, di aver lasciato sull’asfalto una guardia giurata. Jim Grant non aveva preso parte all’assassinio, ma nessuno può dimostrarlo; e sulle sue orme si muove ormai sia l’FBI che il giornalista Ben Shephard, un giovanotto ostinato che ha afferrato l’osso e non molla.

Jim dovrà darsi di nuovo alla macchia come quando era giovane, affidando la figlia al fratello riluttante che vive a New York. Inizia un inseguimento spietato con ampio dispiegamento di mezzi e quando c’è una caccia all’uomo, si sa,  non esiste spettatore degno del nome che non stia dalla parte del fuggiasco. I vecchi compari, chi a malincuore chi con rinnovata complicità, lo spalleggiano e Grant riesce a raggiungere alla disperata il rifugio segreto tra i boschi nella Regione dei Grandi Laghi. Attende la donna che gli diede una figlia ed è l’unica in grado di scagionarlo, consegnandosi alla polizia e testimoniando la verità. Mimi Lurie (Julie Christie) è una skipper provetta che giunge dal Canada con la sua barca e non sembra per nulla disposta a stravolgere la propria vita ormai al sicuro.

Eppure quando in una inquadratura aerea perfettamente perpendicolare, vediamo l’imbarcazione che sta filando verso casa a gonfie vele spinta dal vento di traverso, invertire improvvisamente la rotta e tornare indietro, un groppo ci prende alla gola. Capiamo che la donna ha cambiato idea e ha deciso di salvare il vecchio amante accettando il proprio destino e consegnandosi alle forze dell’ordine. Una scena in cui è racchiuso l’intero senso della vicenda. Vorremmo averlo noi un regista capace di raccontare la vita con la forza del vero cinema, e un grande vecchio come Redford in grado di rappresentare con la propria faccia devastata l’impietoso, nitido bilancio di un fallimento. Il film si chiude con un campo lungo in cui il protagonista, di schiena, si allontana tenendo per mano la figlia adolescente; gesticola, parla, ma non sentiamo cosa si raccontano.  “Quando non sai cosa fargli dire – mi diceva Fellini – riprendi l’attore di spalle e sostituisci le parole con il rumore del vento.”

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1 Response

  1. Martha scrive:

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