La dea che amò un romagnolo – “Il battello dei sogni” di Marina Ceratto

di Gianfranco Angelucci

Il suo vero, travolgente, indimenticabile, unico amore è stato Aditeo Guidi (“mi chiami Guido”, la ammaliò), giovane colonnello pilota di Bertinoro, il solo a farla letteralmente tremare di desiderio. Romagnolo inguaribile accarezzava il sogno, una volta finita la guerra, di rientrare definitivamente nella sua regione, spalancarle la casa di famiglia, stordirla di passione, impregnarla di sé mettendo al mondo una nidiata di marmocchi.

Lei è Caterina Boratto, una delle stelle più radiose del firmamento cinematografico, alla cui bellezza degna di una dea Federico Fellini eresse un monumento, prima in “Otto e Mezzo”, poi in “Giulietta degli Spiriti”, dove la dipinse con le luci e i colori di un’apparizione, il volto di puro alabastro da far invidia alle sante d’altare. Nel film era la madre fastosa, regale, di Giulietta; indossava cappelli smisurati, velette tentatrici più peccaminose di una grata di confessionale. Attrice degli anni Trenta, con un solo film, “Vivere!” conquistò una celebrità che divampò oltre l’oceano. Louis B. Mayer, il più potente tycoon dell’epoca, la chiamò a Hollywood per lanciarla in una carriera da diva internazionale, al pari di Greta Garbo, di Marlene Dietrich; restò per quasi due anni stipendiata profumatamente dalla Metro a studiare inglese e recitazione in attesa del ruolo giusto per lei; al ristorante degli Studios c’era un uomo sempre solo, con il cappotto addosso in pieno giugno, chino a scrivere sul tavolo; era Scott Fitzgerald, che quando si accomiatò da lei non nascose la propria emozione: “Lei è qualcosa più di un’attrice, è il battello dei sogni”

Frequentò feste mirabolanti, conobbe i più leggendari divi dell’epoca, da Clark Gable, a Mirna Loi, da Robert Taylor a Joan Crawford; Spencer Tracy si incapricciò di lei, le loro labbra si unirono in un bacio rovente ma niente di più, il contratto capestro non le permetteva la minima iniziativa personale: ogni gesto, ogni incontro, persino ogni battito del cuore era vagliato e deciso a tavolino dall’onnipresente agente Billy Grady. La chimera americana si dissolse con la dichiarazione di guerra di Mussolini, quando la ragazza italiana divenne una nemica degli Stati Uniti. Caterina tornò rocambolescamente in Italia imbarcandosi su una nave che salpava per Città del Messico: “Partii piena di valige, come una diva, indossando un abito di seta bianca e un largo cappello nero. Andai incontro alla guerra come una turista di lusso”. A Trinidad gli inglesi la depredano di ogni avere, abiti, soldi, gioielli. Rientra a Torino in treno, dalla Spagna, in un Paese ingoiato dalla tragedia.

Questa storia affascinante come un film dei telefoni bianchi, ma autentica e palpitante in ogni dettaglio, è raccontata in prima persona dall’attrice, a iniziare dall’infanzia nella famiglia d’origine torinese, per giungere fin quasi ai giorni nostri (la Boratto si è spenta nel 2010, a 95 anni). Il suo è un resoconto onesto fino all’autolesionismo e venato di dolente verità. Ma la sorpresa sbalorditiva è che non è scritto da lei, bensì dalla figlia Marina Ceratto, artefice di un vertiginoso scambio di persona, di una mimesi che lascia interdetti e incantati. Come possa una figlia vestire i panni della madre, sovrapporsi a lei fino restituirne il lessico, il fraseggio, i vezzi, i giudizi, le movenze, i segreti inconfessabili, rimane un mistero inquietante; un caso di avatar, di assoluta medianicità. Marina è giornalista e scrittrice, ma questa sua opera alchemica è un capolavoro che va ben al di là del suo mestiere. Suo padre è Armando Ceratto, rampollo di una ricchissima famiglia di Torino proprietaria di una clinica esclusiva, innamorato di Caterina fin da adolescente. Quanto il pilota Guido Guidi perse la vita in un incidente aereo, e il baritono Tito Schipa per quasi vent’anni generoso, caparbio, irriducibile spasimante, depose le armi di fronte all’inflessibilità della ragazza, il giovane Ceratto riuscì a impalmarla, e nacquero dalla loro unione Marina e Paolo.

Nel dopoguerra Caterina conobbe finalmente dieci anni di meravigliosa serenità, circondata dall’alta borghesia della sua città. Poi le vicende mutarono ancora; l’attrice tornò a Roma per riprendere la sua carriera. E fu nel 1961 che rivide Federico Fellini, già incrociato al tempo della boheme. In un’intervista filmata che girai con lei, ne rievocò i complimenti con grazia fiabesca: “Tu appartieni a quell’Olimpo di donne che da sempre porto nella mia personale mitologia.” Nel libro è tutto descritto, narrato; una piena e rutilante confessione che non nasconde nulla. Irresistibilmente.

Potrebbe piacerti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Email