Petto gonfio e sandaloni, gli eroi di Cinecittà (“Il Grande libro di Ercole” di Della Casa)

di Gianfranco Angelucci

Il genere vanta ancora appassionati irriducibili che lo rimpiangono con espressione sognante; è il cinema mitologico che sbancava i botteghini in Italia tra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta. Poi soppiantato quasi in una sola stagione dagli spaghetti western che ne presero il posto nel cuore del pubblico fin dal primo titolo di Sergio Leone “Per un pugno di dollari”. I forzuti in perizoma e sandaloni battuti dai pistoleros con il poncho e il sigaro in bocca.

Quando si tornava a casa dopo aver visto le imprese di Ercole, Ursus o Maciste, i bambini si mettevano davanti allo specchio gonfiando il petto e le mamme esclamavano compiaciute: “Accidenti che fusto, sembri John Vigna”. Nel nostro paese ancora affamato del primo dopoguerra “John Vigna che il muscolo insegna” era stato il profeta del ‘culturismo’, la moda statunitense dei corpi scolpiti con speciali esercizi di palestra.

Il più famoso di tutti i superpalestrati era Steve Reeves, Mister Universo, un gigante ipertrofico rinominato a Roma “manzotin”, che per anni restò il divo indiscusso dei film ‘peplum’ in cinemascope. Il fenomeno di costume scoppiò nel 1957 con “Le fatiche di Ercole”, in cui lo sceneggiatore Ennio De Concini intuì per primo “la necessità di giocare con il mito, di spettacolarizzare le letture scolastiche”. Un filone su cui si gettarono astutamente capitali e divi americani inaugurando quel mito di Cinecittà che la rivista “Time” battezzò per prima “Hollywood on the Tiber”. Era l’infanzia del cinema nella sua spudorata innocenza, affascinante proprio per la capacità di giocare a carte scoperte da parte di registi non intellettuali, in seguito rivalutati dalla critica per la loro genialità tecnica. Risolutivi furono gli effetti speciali visivi di Mario Bava che otteneva finti scenari da kolossal con il semplice uso dei mascherini davanti all’obiettivo, le scenografie di gesso e presto di polistirolo espanso, gli esterni esotici girati nei boschi di Manziana o sulle colline sabbiose di Tor Caldara.

Il segreto stava nelle trame avventurose in cui l’imponenza fisica del super eroe abbatteva a mani nude mostri e nemici crudeli, salvando la bella di turno in costumi succinti (lo voleva la fedeltà storica!) e calamitando spettatori ancora denutriti. Nel libro stampato dal Centro Sperimentale insieme alle Edizioni Sabinae (pagg. 431, euro 30) e curato con rapinosa maniacalità cinefila da Steve Della Casa e Mario Giusti (due adoratori del trash), insieme al bel corredo di immagini, compresa Cleopatra seduta sul trono con in mano la tazzina del caffè, si trovano tutti i nomi di quelle stelle abbaglianti, dalla torrida sensualità: Marina Berti, Scilla Gabel, Cristina Gajoni, Sylva Koscina, Abbe Lane, Belinda Lee, Virna Lisi, Claudia Mori, Eleonora Rossi Drago, Rossana Podestà, Chelo Alonso, Dominique Boschero, Rosanna Schiaffino, Gianna Maria Canale, Mylène Demongeot; anche Raffaella Carrà figurava nella processione di succose veneri di celluloide.

Ma i protagonisti assoluti erano sempre i bicipiti e i turgidi pettorali dei bei maschioni, che in genere recitavano con due espressioni, una sottosforzo e una sorridente. Un impagabile macchinista romano guardando Steve Reeves impegnato in esercizi ginnici, aveva commentato: “Lo vedi? Sta’ a ripassà il copione”. I Cecil B. DeMille e i John Huston al di qua dell’oceano erano professionisti di tutto rispetto, da Cottafavi a Freda, da Leone a Tessari, Cobucci, Lenzi, Lupo, Parolini; e i titoli si moltiplicavano in sfrenata fantasia: Ercole al centro della terra, alla conquista di Atlantide, contro i figli del Sole, contro i tiranni di Babilonia, contro Moloch, contro Roma, Ercole e la regina di Lidia, perfino “Ercole, Sansone, Maciste e Ursus gli invincibili”. I titoli e le trame in ordine alfabetico, da “Afrodite dea dell’amore” a “Zorro contro Maciste”, riempiono da soli 252 pagine, un’autentica sbornia.

I cascatori, in inglese stuntmen, spesso superlativi artisti di circo, erano la vera risorsa dei film. Si ricorda il famoso Attilio Severini che quando Anthony Mann lo chiamò al telefono per proporgli “La caduta dell’impero romano”, rispose: “Sì, vabbe’ accetto, ma quanto è alta ‘sta caduta?” Nei cast per assicurare l’incerta tenuta drammaturgica, veniva sempre ingaggiato qualche buon nome teatrale, in genere nel ruolo del cattivo: Gianni Santuccio, Enrico Maria Salerno, Mario Scaccia. Non tutti però apprezzavano lo sforzo; il caustico Groucho Marx dichiarò: “Non vado a vedere un film dove il protagonista ha più tette della protagonista”.

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