Intervista a Marco Bellocchio – 3

Intervista effettuata da Giovanni Scolari e Massimo Morelli il 4.12.2012 a Travagliato (BS) durante la consegna del premio TESTIMONI DELLA STORIA

Bella Addormentata può essere considerato un film sulla libertà di morire?

Io l’ho sempre detto, d’accordo con Beppino Englaro, che questo non è un film sull’eutanasia. È chiaro che potrebbe sembrare un modo di moderare la drammaticità del film. È un film di risvegli, di gente che ha la capacità di innamorarsi, magari di rinnegare il proprio amore come fa Roberto che schiacciato, ricattato dalla follia del fratello abbandona la ragazza, lui laico e lei cattolica. Però è un risvegliarsi. Io sono stato molto coinvolto nel dramma di Eluana Englaro: l’ho seguito attraverso la televisione e c’era una partecipazione come in una grande rappresentazione. Probabilmente c’erano anche persone in buona fede, però il calcolo di non voler dispiacere ai cattolici, al Vaticano, al Papa, di non perdere quell’alleanza per cui corri a fare una legge in pochi giorni per bloccare una situazione, per me, totalmente irreversibile e lo sarebbe stata ancora di più se fosse stata interrotta.

La prima storia che mi è venuta in mente è stata quella della tossicodipendente: una ragazza che vuole uccidersi, autodistruggersi, che vuole morire e un povero medico che non ha né arte né parte sente, deve, in tutti e modi, impedirglielo anche contro la sua libertà. Sono due libertà. La libertà di lei “Io sono libera di uccidermi!” E lui dice “Io sono libero e cerco di impedirtelo in tutti i modi”. Lei sente in questa attenzione, in questo interesse, in questo amore un qualcosa di diverso che forse non aveva mai sentito. Chissà quanti medici, psicologi, assistenti sociali ha sicuramente incontrato che avranno fatto tutti dei discorsi, anche in buonafede. Però quell’uomo si comporta, le parla in modo diverso. E questo fa sì che lei, pur potendo, non si butta dalla finestra come voleva fare prima. Questo è il contrappunto che mi interessava raccontare. Poi si sono aggiunte le altre storie.

L’attrice con la figlia in coma irreversibile ordina di togliere tutti gli specchi e sogna, nell’ultima  cena, di avere le mani sporche che non si puliranno mai. Dovrà lavarle, rilavarle ma non si puliranno mai. È la morale cristiana che incombe?

Alla morale cristiana non ci avevo pensato. È una citazione di Macbeth. C’è sempre, quando tu scrivi una cosa, un significato che ti appare, poi magari ci sono degli altri. Il senso di quella scena era che questa donna vuole costruirsi, vuole inventarsi, vuole ritrovare una fede che è l’unica chiave possibile per accedere al miracolo. In realtà nel suo inconscio resta un’attrice e quindi quando dorme recita Lady Macbeth. Poi si può anche pensare ad un’altra connessione. Isabelle Huppert ha interpretato, La signora delle camelie.  In quel film c’è una scena in cui lei va in un macello parigino e beve il sangue di un vitello che, si diceva allora, essere una possibile cura per chi era malato di tisi. Il sangue: in questo senso c’è una relazione tra lei che è ossessionata dalle mani sempre sporche di sangue e il sangue del vitello che ha una connessione con questo povero ragazzo che viene, in qualche modo, sacrificato dalla madre in nome della disperata speranza di risveglio della figlia.

Nei suoi film i suoi attori recitano molto bene, ma già in Pugni in tasca c’erano degli attori molto bravi non molto conosciuti. Li ha scelti dopo un’attentissima cura o è nella gestione delle riprese che li plasma?

Ci sono grandi cineasti che hanno verso gli attori un coinvolgimento freddo. Non è che li usano come burattini, però lo dicono. Se si perde sull’attore, il film non vale. Al tempo stesso la fortuna e anche l’intuito è nella scelta dell’attore. Certo, forse perché sono un attore mancato: volevo fare l’attore e non l’ho mai fatto. Dicevano che, per esempio, Vittorio De Sica interpretava tutti i ruoli. Lui faceva, ad una donna, ad un uomo, la parte per cui l’attore doveva imitarlo. Io no. Piuttosto cerco, e questo fa parte del nostro lavoro, di conoscere gli attori sia sul set che a colazione, a cena, – in una certa familiarità che si crea quando si lavora – di trovare una serie di cose che io colgo in loro: un’inflessione della voce, un movimento che poi utilizzo anche per riportarli nei loro personaggi. Anche quando si prova, io credo di avere le idee abbastanza chiare sul personaggio ma non in modo dettagliato. Il momento fuori dal set diventa molto importante come osservazione dell’attore e quindi per una ricomposizione del personaggio utilizzando, alcune volte, le sue caratteristiche.

In certi personaggi di Bella addormentata si delinea in maniera differente l’emotività con cui viene vissuta la questione della vita e della morte. Mentre ci sono personaggi che polarizzano questi sentimenti portandoli o all’odio acceso o all’amore totale, vi sono altri che subiscono questa situazione. Penso ad esempio a Tognazzi che vive con sottomissione la situazione. Che tipo di figura è la sua?

L’elaborazione ma anche lo sguardo, il che cosa prendere cambia in un film in cui ci sono numerosi personaggi. Non è che ci sia una durata fissa, però immaginando quel tipo di struttura, inevitabilmente tu devi cercare di dare a loro un’identità in un tempo limitato. A me sembrava che lui, rispetto al figlio, distinguesse due pesi diversi. Il figlio ha verso la madre una stima assoluta, un’ammirazione mentre verso il padre ha un’altra considerazione. Glielo dice: “Tu sei un buon attore, ma non sei come la mamma.” Questi due pesi hanno naturalmente un significato. Un certo tipo di umanità si riconosce quando il padre intuisce che sta succedendo qualcosa di veramente grave e anticipa, rispondendo con indignazione, con buon senso. Quello che dice lui potrei dirlo io “Come ti permetti? Tu devi lasciare. Se tua madre la pensa in un certo modo non ha nessun senso sovrastarla e fare un’azione che sarebbe ancora più violenta.” In fondo Tognazzi ha uno sguardo triste, mi ha colpito. Nel film ci sono diversi figli di padri abbastanza ingombranti: Placido, mio figlio, Tognazzi. Gianmarco parla sempre del papà. Questo sguardo triste mi ha attirato. C’è sempre un qualcosa che mi tentava come lo sguardo di Isabelle Huppert. Lei è una grandissima attrice, lo sappiamo. Il suo sguardo è un enigma, freddo ma al tempo stesso di una durezza assoluta. Ecco era quello per cui le ho chiesto di interpretare il personaggio:questo suo sguardo, questo lavorare in una discreta immobilità.

In Bella addormentata c’è la vicenda dei due fratelli: uno assiste l’altro, malato di mente, si sacrifica per lui. Roberto lascia la ragazza. Perché non scegliere il lieto fine?

È abbastanza a lieto fine. C’è più di un risveglio, nel senso di ricominciare a vivere. Ci ho pensato dopo. Alcune volte, un certo tipo di durezza, di resistenza per esempio verso il fratello che ha degli eccessi piuttosto inquietanti, è più terapeutica che non andargli dietro, che non subire il ricatto del malato di mente. L’affermare “Io sono innamorato di una ragazza”, il vivere questo rapporto poteva essere più prezioso per il fratello. L’affermazione di una propria libertà mentre invece, evidentemente impaurito dal comportamento del fratello, Roberto lascia Maria. Forse si rivedranno, non si sa. Questo è un po’ il senso a posteriori elaborato dopo alcune discussioni. Questa è una situazione, con tante varianti, non infrequente nelle famiglie: il sacrificio per i più deboli. Senza capire che, invece, il riconoscersi un proprio amore, esterno alla famiglia, può essere molto più di giovamento al malessere della famiglia stessa. Certamente questo comporta una resistenza, un’energia, un carattere che Roberto, in quel caso, non possiede.

Bellocchio è l’unico regista italiano che poteva affrontare un tema così delicato. Il film ha restituito un sentimento che in quei giorni avevano vissuto in molti: la fotografia di un paese in preda ad una crisi isterica. È facile ricordare la posizione dura assunta dalla Chiesa, Bagnasco in modo particolare. Ci si aspettava nel film una chiamata in causa di questa posizione con un punto di vista più arrabbiato. C’è la sensazione che sia stato molto rispettoso nei confronti di chi, in quei giorni, non perse occasioni con un punto di vista, che io rispetto, ma che molte volte ho fatto fatica a sentire rispettoso della persona umana.

Io credo che l’aver affrontato questa vicenda – che sta sullo sfondo ma che al tempo stesso è protagonista del film – tre anni dopo era proprio, non tanto per avere uno sguardo obiettivo che non esiste, per sentirmi io più libero e meno attaccato al contingente o a quello che poteva essere la dimensione della denuncia e d’una partigianeria più esplicita che io non condanno assolutamente. È venuto fuori questo film. Non ci si può giustificare ma un critico o uno psicoterapeuta può interpretare. La sua critica l’ho colta in un’altra critica di un non critico, Curzio Maltese, mi pare, che si aspettava una posizione più dura. Lui forse in senso antiberlusconiano, altri per chiamare più direttamente in causa la chiesa. Noi parliamo per emozioni, non per ragionamenti e quindi ciò che lei ha sentito non starò qui a contestarlo. Non finiremmo più. I film cambiano anche per chi li ha fatti, sia pure collettivamente, e per chi li ha visti. Più di una volta e l’esempio più calzante è Vincere, un film verso cui gli italiani sono rimasti interdetti, c’è voluto un anno per recuperare e riscoprire il film da parte di tanti che non lo avevano capito. Non lo dico per vanagloria, però più di una volta c’è stato un fenomeno di questo genere. Questo non è avvenuto per I pugni in tasca, lì è stato immediato. Il diavolo in corpo, che io ritengo un film molto originale, quello è stato proprio, parlo dell’Italia. Anche Buongiorno notte fu criticatissimo dalla sinistra che diceva che noi non eravamo questo.

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