Il sapore del successo. Storytelling da reality

Il nostro parere

Il sapore del successo (2015) USA di John Wells

Adam Jones era un grande chef. Non riuscendo a reggere la tensione è caduto in un vortice di depressione, droga e alcool che hanno distrutto la sua carriera, facendolo fuggire da Parigi dove era diventato famoso. Ritorna, dopo essersi disintossicato, a Londra per aprire un nuovo ristorante capace di ottenere le prestigiose tre stelle Michelin. In agguato il suo narcisismo  e il suo perfezionismo, dovuti ad un’infanzia infelice, minano le sicurezze e l’equilibrio faticosamente trovato. Si salverà solo se metterà da parte il suo egocentrismo, imparando a convivere con gli altri e le proprie debolezze.

Il fenomeno che vede i grandi chef stellati protagonisti della scena, approda anche al cinema in questo film in cui il cuoco è raffigurato come una specie di rockstar maledetta e dannatamente a rischio di autodistruzione. L’identificazione di Adam a personaggi come Keith Richards è evidente dall’abbigliamento, dall’anticonformismo disegnato su Bradley Cooper, perfetto per un ritratto di bello e maledetto che ci viene mutuato dal rock. La diversità viene dall’ambientazione, ricca di salse e piatti, piuttosto che da altri elementi.

Questa rappresentazione è però falsa, sa troppo di strizzata d’occhio al pubblico dei reality, troppo da manuale il contorno del personaggio (la caduta e la risalita vista milioni di volte), troppo patinata e glamour la trama e la fotografia. Uno storytelling perfetto per Masterchef, ma al cinema proprio no.

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