Il dramma dell’emigrazione: Il cammino della speranza

di Giovanni Scolari

REGIA: Pietro Germi SCENEGGIATURA: Federico Fellini, Tullio Pinelli ATTORI: Raf Vallone, Elena Varzi, Saro Urzì, Liliana Lattanzi, Francesco Navarra, Saro Arcidiacono, Renato Terra FOTOGRAFIA: Leonida Barboni MUSICHE: Carlo Rustichelli 1950 DURATA: 97 Min

PIETRO GERMI: LA VITA ED IL REGISTA

Pietro Germi (1914-1974) esordisce alla regia nel 1946 con Il testimone, un giallo psicologico con influenze dal noir francese. Del 1948 è Gioventù perduta. Con quest’opera e le due successive (In nome della legge 1949 e Il cammino della speranza 1950) entra nell’ambito neorealista realizzando drammi che trattano delle preoccupazioni e dei dilemmi dell’Italia del dopoguerra. Dopo L’uomo di paglia (1958) gli interessi del regista si rivolgono al campo della satira grottesca. Con Divorzio all’italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1963) e Signori e Signore (1966) ritrae un’Italia provinciale e crudele, in cui le convenzioni valgono molto di più di ogni etica morale. L’ultima sua opera Amici miei (1975) viene girata dall’amico Monicelli per la malattia che lo colpisce. Muore nel 1974.

IL FILM

Prodotto dalla Lux di Gualino, la più importante casa produttrice del dopoguerra dove sono cresciuti professionalmente Carlo Ponti e Dino De Laurentis, il film ha ottenuto l’Orso d’argento al Festival del cinema di Berlino.

La vicenda prende spunto dal romanzo di Nino De Maria, ispirato ad un reale fatto di cronaca che aveva visto protagonisti dei meridionali trovati quasi congelati alla frontiera italofrancese. Germi aveva appreso l’accaduto durante le riprese di Viaggio in Francia, il film di Mario Soldati che lo vedeva come interprete.

Il soggetto e la sceneggiatura del film sono di Fellini e Pinelli. Il più grosso contrasto con il regista sta nel finale, nella voce fuori campo (prestata proprio da Germi) che commenta la vicenda. Gli sceneggiatori erano totalmente contrari, ma Germi la inserì ugualmente.

La pellicola è un affresco epico, mistico e misterioso. All’epoca venne identificato nel neorealismo o nel romanzo sociale (Furore di John Ford è il modello citato anche dal regista). Ricordiamo che era il momento dell’affermazione del movimento grazie ai successi di De Sica e Rossellini in tutto il mondo, particolarmente negli Stati Uniti.

Agli occhi della critica, però, il film soddisfaceva o troppo o troppo poco questo modello. Le recensioni sono estremamente combattute. I critici esprimono l’apprezzamento della tecnica mostrata dal giovane regista, ma avanzano profonde riserve ideologiche all’apparato socioculturale della trama.

Da una parte, infatti, Germi sembrava assumere senza riserve il carattere morale (essere dalla parte di chi soffre) del movimento neorealista, ma dall’altra falliva caparbiamente nell’analisi ideologica e sociale dell’ingiustizia, della povertà, della subordinazione, puntando con tutti i mezzi nella commozione del pubblico. Quest’ultimo aspetto infastidiva profondamente la critica politicamente schierata, ma è anche l’elemento di maggior successo del cinema di Germi presso il pubblico.

Il regista mostra di conoscere profondamente il cinema. Sono chiari i riferimenti all’opera di Ejzenstein, nonchè i riferimenti letterari di Zola. I volti, il bianco e nero fulminante, la plasticità dell’immagine sono ispirati al regista russo. Siamo lontani, invece, da De Sica e Rossellini nell’impostazione stilistica, nei movimenti di macchina. L’errore fu di leggere nella pellicola il momento di maggior contiguità germiano con il neorealismo; il film, anzi, è la riprova dell’idea di cinema di Germi poichè si realizza sempre a partire da una padronanza delle forme e delle strutture di un genere.

Germi lavora su piani stilistici diversi. L’inseguimento alla stazione è da crime movie, il duello finale è da melodramma rusticano, la tormenta è da cinema hollywoodiano epico. Ciò che la critica non riesce a comprendere, a metabolizzare è proprio la continua trasformazione del racconto.

Uno degli elementi importanti della preparazione dei film di Germi stava nella scelta dei volti anche del più insignificante dei figuranti effettuata personalmente dal regista costantemente impegnato nella ricerca infinita della faccia giusta, nella convinzione che il volto fosse parte essenziale della messa in scena. È una procedura, usata anche da Fellini, che lo porterà, negli anni sessanta, ad usare la fisionomia del volto come un vero e proprio lessico comico e grottesco.

Le reazioni all’opera sono quindi molto variegate. Detto della critica, bisogna ricordare che le istituzioni pubbliche non amavano ritratti così bui della nazione. Come detto da Andreotti, bisognava evitare di lavare i panni in pubblico. Ecco perché il film venne privato dei contributi ministeriali.

In fondo sia le istituzioni sia la critica non accettavano che la sua ricerca di costruzione tragica e realistica si sostituisse all’ideologia e alla cronaca. È stato sempre questo l’ostacolo che ha impedito, forse fino ad ora, di considerare Germi tra i principali maestri del cinema italiano.

Infine, un’ultima considerazione: il regista americano Nicholas Ray amava moltissimo Il cammino della speranza, al punto che lo definì “il film più lirico che abbia mai visto”

NOTE CINEMATOGRAFICHE

Uno dei principali elementi di valutazione storica del film sta nella sottolineatura della contrapposizione nord/sud. Al nord vi è una massa organizzata in gruppi sindacali, ideologicamente schierata; al sud, invece, ci si basa sull’individualismo, sul concetto familista, forse anche più solidale, ma completamente carente nella coscienza sociale, nella comprensione del momento storico oltre che politico.

Come in tutti i film di Germi il film si apre e si dipana tra le canzoni popolari. Vitti ‘na crozza è il leit motiv di tutta la pellicola, l’ultimo ricordo della comunità di partenza di questi sfortunati siciliani.

La prima scena ci mostra la polizia che presidia la miniera di zolfo. Al suo interno i minatori scioperano e protestano contro la chiusura della miniera che li riduce in povertà. All’accorato appello del ragioniere che cerca d convincerli ad uscire, rispondono inizialmente “Meglio morire qui”. Saro è vedovo ed ha tre figli. Cerca di guidare il movimento ma si arrende ed esce sfinito come gli altri. Sul desiderio di combattere, prevale l’istinto di sopravvivenza. Escono sconfitti privati di ogni forma di solidarietà, li aspetta la miseria senza alcun aiuto dello stato che li ha abbandonati.

Straordinaria è la ripresa del dolore composto e muto delle donne in attesa. Il paese è ritratto nella sua disperazione, nella povertà estrema che contraddistingue uomini e ambiente. Davvero impressionante il lavoro svolto dal direttore della Fotografia Leonida Barboni.

L’arrivo di Saro Urzì porta una speranza in quanto propone l’emigrazione in Francia come soluzione alla miseria. Tutti sospettano che sia un truffatore ma il desiderio di dare un futuro diverso li porta lontano da casa. Come in molti film di Germi, il senso della comunità si ritrova nelle osterie, dove il popolo, con i volti scavati dalla fatica e dalle privazioni, si riunisce, discute e decide di emigrare. Questi ambienti sono l’elemento tipico del cinema di Germi.

Tutto viene venduto per pagare il viaggio. Il gruppo che decide di abbandonare la Sicilia è molto composito: coppie giovani, uomini soli, anziani. Vallone emigra con i tre bambini per dare loro un futuro dignitoso.

Barbara è la donna di Vanni. È stata ripudiata dalla famiglia, nella migliore tradizione siciliana, perché si è concessa all’uomo pur non essendo sposata. Vanni è diventato un pregiudicato, un uomo violento.

Le tappe del viaggio sono: Messina, dove viene preso il traghetto; Napoli, dove Vanni scopre la truffa senza svelarla ai compagni; Roma, città in cui il gruppo si disgrega.

Gli emigranti vengono tutti arrestati, tranne una donna che si perde nella città senza più ritrovare nessuno. Gli altri ricevono il foglio di via obbligatorio per emigrazione clandestina. La regolamentazione sull’emigrazione era ancora definita dalle leggi fasciste che cercavano di disincentivare la fuga dall’Italia. Le leggi verranno abolite totalmente solo nel 1961.

Il contatto con la grande metropoli, la diversità degli usi e dei costumi intimidisce i protagonisti, li smarrisce. Si scontrano poi (non a caso nella capitale) con la burocrazia che aggredisce questi poveri contadini senza nessuna forma di comprensione. Roma diventa un simbolo negativo: dove c’è il potere i più deboli vengono schiacciati, umiliati.

Il gruppo non demorde e raggiunge Parma. Qua si confronta con le lotte sindacali, scoprendo che esiste un altro mondo, dove non vige la rassegnazione ed il fatalismo. Ancora una volta i siciliani sono vittime della realtà circostante cui non riescono ad adeguarsi perché avulsi dalle questioni sociopolitiche.

È interessante lo scontro di culture tra braccianti del nord, tra cui molti bergamaschi, e i meridionali. Dopo un inizio di insulti, conditi da termini di carattere regionale (terrone, polentone ecc.), nasce una vicinanza data dalla disperazione. L’elemento che unifica i più umili è sempre lo stesso per Germi: la musica, la festa popolare.

Tuttavia, la realtà è contrassegnata dalle parole pronunciate dal fattore al momento del congedo: “Sarebbe stato meglio che non foste mai venuti!”. I siciliani sono respinti, espulsi dalla propria patria a cui, forse, non sono mai appartenuti.

Questo rifiuto, ultimo, terribile, spinge qualcuno a cedere, a ritornare al paese pur sapendo che li aspetta la povertà assoluta; gli altri proseguono.

L’happy end finale giunge dopo una serie di avvenimenti chiave: il duello all’arma bianca, la tormenta di neve. Alla frontiera l’ultimo incontro che può sconvolgere il loro viaggio. È il sorriso del bambino più piccolo ad andare oltre la legge. La compassione umana è superiore a tutto.

NOTE STORICHE

L’ultimo grande ciclo dell’emigrazione dall’Italia abbraccia i venticinque anni del lungo boom economico postbellico e accompagna la metamorfosi della società da rurale in industriale. Nel secondo dopoguerra l’intero continente è solcato da vasti movimenti di popolazione verso le zone di maggiore sviluppo come le aree industriali della Francia e della Germania, la Svizzera, il triangolo industriale del Nord Italia (quest’ultimo analizzato più diffusamente con Rocco e i suoi fratelli).

Alle origini di questa emigrazione c’era una certa complementarità tra la massiccia disoccupazione italiana e l’urgente richiesta di manodopera non qualificata di taluni mercati.

Nel 1946/47 il governo italiano strinse un accordo bilaterale con diversi paesi, tra cui la Francia. In questi accordi vi era la possibilità di contratti temporanei di lavoro e di residenza su specifica chiamata del paese ricevente. In Belgio e Francia, poi, esistevano regole piuttosto elastiche che consentivano agli immigrati di rinnovare il permesso di soggiorno con una certa facilità.

L’emigrazione verso il nord Europa era prevalentemente maschile. Nel primo quinquennio le donne erano circa il 40% del totale, ma dal 1951 in poi le percentuali si assestano tra il 24 e il 28%.

La Francia accolse tra il 1946 e il 1957 il 45,3% degli espatriati, al netto dei ritorni. Poi la richiesta di lavoratori diminuì, aumentando in maniera inversamente proporzionale la preoccupazione dei governi riguardo l’innalzamento della disoccupazione. Il boom economico risolse questo problema innescando una fortissima ripresa dei flussi migratori. Tuttavia, non si raggiunse più il livello di occupazione raggiunto nel 1931. Ci sono, di fatto, altri mercati che attraggono gli italiani come la Svizzera, il Belgio e poi la Germania.

Eppure l’integrazione in Francia è abbastanza veloce. Anche se stagionali, i nuovi arrivano spesso con la famiglia, cosa favorita anche dalle autorità. Lo stato, infatti, preferisce gli italiani agli algerini che sono, sia pur teoricamente, francesi. L’edilizia è la loro specialità.

Le altre destinazioni non erano altrettanto invitanti. In Svizzera, ad esempio, gli italiani sono nel 1950 il 49% della popolazione straniera censita. Gli elvetici non sono, però, molto ospitali. Le donne possono ricongiungersi ai mariti solo se dotate anch’esse di un permesso di soggiorno legato ad un lavoro. I bambini non potevano raggiungere i genitori; molti vissero da clandestini, in una condizione di vera prigionia. Il razzismo poi era imperante. Sono numerosi i casi di violenze su italiani poi blandamente punite. Alcune forze politiche hanno ottenuto importanti risultati nei momenti di maggior timore per la concorrenza del lavoratore italiano.

In Belgio siamo il gruppo straniero più rilevante: 300.000 persone agli inizi degli anni settanta a cui bisogna aggiungere tutti quelli che hanno concluso il loro percorso di naturalizzazione.

Nel secondo dopoguerra (1945) molti avevano siglato un contratto per lavorare in miniera a condizioni economiche molto vantaggiose. Non era mai spiegato però quali erano le condizioni di vita dei lavoratori nelle miniere. Dopo aver provato un giorno, molti si rifiutavano di scendere ancora. Venivano allora arrestati con l’accusa di rescissione di contratto, per poi essere rispediti in Italia in un convoglio speciale. Gli alloggi accoglienti sono in realtà gli ex campi di prigionia costruiti dai nazisti per i soldati russi catturati; i mobili sono le povere masserizie rimaste dopo la liberazione.

Naturalmente, anche in Belgio vi sono numerosi casi di razzismo con pene molto miti e comprensive anche per chi si macchiava di omicidio nei confronti degli italiani. La situazione migliora negli anni successivi ma le condizioni degli alloggi restano ancora a lungo insalubri.

Dopo la seconda guerra mondiale la Germania non è presa in considerazione, per ovvi motivi, come meta per l’emigrazione. È dal 1956, data del Trattato di Roma, che esplode l’emigrazione italiana su vasta scala in Germania: un processo molto intenso che in un periodo molto breve vede la sua affermazione.

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