Fellini e gli scrittori

di Gianfranco Angelucci

“Fellini è uno dei pochi che hanno portato il cinema a far parte dell’arte moderna; il solo la cui immensa opera può essere messa sullo stesso piano di quella di Pablo Picasso e di Igor Stravinskij. I suoi film gettano uno sguardo magicamente immaginativo e, allo stesso tempo, terribilmente lucido sul mondo moderno, sulla sua grottesca sessualità, il suo abbrutimento, il suo esibizionismo”. Queste parole sono state scritte da Milan Kundera, anche lui riverberato da quell’attrazione fatale immediata tra Fellini e gli scrittori, un amore istintivo e complice. Georges Simenon, presidente della giuria al Festival di Cannes del 1960 (Henry Miller era tra i giurati), trascinò “La Dolce Vita” alla Palma d’Oro. “Carissimo Simenon-Mon cher Fellin”, il loro lungo sodalizio celebrato in un libro epistolare, nacque in quel momento.

Fellini aveva molti amici tra i letterati, forse più che tra i cineasti, ed essi lo ricambiavano di un affetto e un’ammirazione incondizionato. Anche un apocalittico come Goffredo Fofi, che gli era fieramente avverso per ideologia, ne rimase travolto, conquistato, ammettendo leale: “Ci ha raccontati come nessuno.” Questa frase, in corsivo, viene riportata sulla copertina di “Fellini visto dagli scrittori”, l’agile libretto che il giovane narratore romano Paolo Di Paolo, classe 1983, ha appena stampato da Empirìa (106 pagg. 14 euro). In esso raccoglie 29 testimonianze, 30 con la propria prefazione in cui illustra il bisogno di mettere insieme queste pagine e riporta i passaggi che più l’hanno colpito. Natalia Ginzburg riemerge dalla proiezione di “Amarcord” riferendo di “avere sempre sospettato che così fossero la neve e la nebbia e di aver saputo grazie a Fellini, sulla neve e sulla nebbia tutta la verità”. Tabucchi, diciassettenne della provincia pisana, rimase così traumatizzato alla vista di Anita Ekberg che ‘fa il bagno’ nella Fontana di Trevi, da decidere di partire per un altrove: “Quel film mi aprì gli occhi. A Parigi non sarei mai andato senza La dolce vita”.

Per mettere in fila le testimonianze, Di Paolo crea un abbecedario felliniano, la cui prima voce è “Bellezza”, l’ultima “Wanda”. Si va da Raffaele La Capria ad Andrea Zanzotto, da Attilio Bertolucci ad Alberto Moravia. Impagabile Mario Soldati: “Non ho ancora visto il film di Fellini. Perché? Ebbene, lo confesso, per invidia: perché ho paura che mi piaccia troppo, che sia troppo bello”. Antonio De Benedetti su “La dolce vita”: “Tutta una città, grazie a Fellini, si era sentita bella e dannata. Ma non troppo, non definitivamente.” Umberto Eco su “Ginger e Fred”: “Questa televisione non è disegnata da Daumier, e neppure da Grosz, è dipinta da Hieronymus Bosch”. Italo Calvino: “Ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino”.

Non tutti gli scrittori sono elencati nel libro, e come potrebbero!, si tratta di una crestomazia d’autore, il quale senza troppo darlo a vedere svela le proprie preferenze. A presentarlo, nella libreria dell’editore a via Baccina, c’erano il poeta Elio Pecora e il critico letterario Filippo La Porta, i quali hanno istaurato un clima di stimolante intimità. Pecora ha raccontato di quando, per sostenersi a Roma, lavorava presso la Libreria Bocca di Piazza di Spagna, per decenni un’istituzione nella Capitale, specialmente nel campo dell’arte. Fellini vi entrava quasi ogni giorno, curioso di novità, acquistando di tutto; e lì si erano conosciuti. Le sue parole ‘rivelatorie’ sul cinema di Federico mi sono parse emozionanti per il nitore e la sapienza con cui ha saputo ‘decifrarne’ la poesia, rendendola semplice, comprensibile, eucaristica, come solo l’intelligenza e non l’intellettualità riesce a fare.

La Porta ha invece indugiato sulla componente romana di Fellini, esistenziale e linguistica, spulciando con sapienza tra i suoi film e ricordando l’espressione che meglio di ogni altra rende la carica di elementare verità e crudeltà contenuta a volte nelle espressioni capitoline: “Ahò, ma chi sei, nun sei nessuno!” E aggiungeva Alberto Sordi ne “I Vitelloni”: “… non siamo nessuno tutti!” Per una volta, come non accadeva da tempo, si è ricreata quell’atmosfera incantata, quel raro stato di grazia in cui le parole si incasellano da sole nei significati, in cui ogni concetto appare chiaro e il pubblico da partecipe diventa complice, creativo. Sembrava di riassaporare il piacere dello stare insieme, in grazia di un linguaggio e forse di un progetto comune, che tanto rimpiangiamo di una Roma che c’era e non c’è più.

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