Everything Everywhere all at once

Il nostro parere

Everything Everywhere all at once (2022) USA di Daniel Kwan, Daniel Scheinert


Evelyn Wang, un’immigrata cinese sulla cinquantina, attualmente impegnata in una lezione noiosa e condiscendente, si ritrova in un ripostiglio delle scope con una versione di suo marito proveniente da un universo alternativo.


Nata nella seconda metà del XX secolo, l’affascinante teoria del multiverso non è stata estranea al genere della fantascienza, che è stata anche alimentata dalle sue ipotesi sulle realtà parallele per raccontare storie approfondendo i dilemmi esistenzialisti e morali. Negli ultimi tempi, quello che intendiamo come un multiverso sembra essere stato associato esclusivamente ai prodotti dei Marvel Studios.

È in questo contesto che A24, il produttore di punta dell’attuale cinema indipendente anglosassone, decide di lanciare in risposta la propria versione del multiverso, in tono umoristico irriverente e insieme a quel sinonimo di successo all’interno del franchise Marvel come i Russo Brothers (Avengers: Infinity War, 2018), che sono tra i produttori.

Diretto e scritto dai Daniels – il duo composto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert, apre con una parata di coreografie d’azione e riferimenti a battute escatologiche e sessuali.

Diviso in tre parti, il film sfugge al suo melodramma iniziale per inserirsi rapidamente in un racconto caotico senza capo né coda. Sotto un ritmo sfrenato, la telecamera segue l’eroina nelle sue molteplici trasformazioni (piuttosto, acquisizioni dei talenti dell’altra Evelyn delle dimensioni parallele) che tira fuori dalla cambusa attraverso manovre assurde per combattere Jobu e i suoi tirapiedi. Il risultato in questione è un fast food di acrobazie stimolanti che, in assenza di una scrittura intelligente con risorse narrative, scommette sull’accumulazione infinita, sulla sontuosità e sul caos costante.

C’è, per la verità, un timido tentativo riflessivo di trovare una morale che, naturalmente, cade nel cliché e nel sentimentalismo ma parliamo più di marketing che di sostanza.

Il film, diviso in tre parti può stancare per la sua costruzione postmoderna in una messa in scena eclettica ma confusa nell’approfondimento dei temi fino ad apparire come un artificio pretenzioso.

Non c’è dubbio che i due registi abbiano rischiato con questa ambiziosa proposta, ma va salvato l’uso epico della stravaganza, il senso di citazionismo e una serie di scelte umoristicamente interessanti. Tuttavia, lascia perplessi la messe di Oscar per un film che difficilmente potrà resistere agli anni.

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