10 migliori Direttori della Fotografia di tutti i tempi

Billy Bitzer: Gli inizi

(21 aprile 1874 – 29 aprile 1944) Pioniere noto per la collaborazione con David Wark Griffith, avendo lavorato con lui in alcuni dei suoi più importanti film. Nel 1910 fotografò il corto di Griffith In Old California, qualificandosi come il primo direttore della fotografia ad Hollywood. L’apice della collaborazione Bitzer-Griffith arrivò con La nascita di una nazione (1915) e con l’epico Intolerance (1916). Nel 1944 ebbe un attacco di cuore e morì ad Hollywood in relativa ombra. Tra le innovazioni effettuate troviamo:

  • la dissolvenza per la chiusura di una scena;
  • la chiusura d’iride in cui un cerchio, chiudendosi, chiude la scena;
  • la fotografia sfocata, con l’aiuto di una diffusione della luce sullo schermo;
  • il filmaggio interamente mediante luce artificiale anziché quella solare;
  • luci, primi piani e riprese lunghe per ricreare uno stato d’animo;
  • perfezionamento della fotografia opaca

Gregg Toland: The Golden Age

Nato a Charleston (Illinois) il 29 maggio 1904 e morto a Hollywood il 28 settembre 1948. Personaggio geniale dalla vita particolarmente irrequieta, responsabile della fotografia di film indimenticabili quali Wuthering heights (1939; La voce nella tempesta) di William Wyler, con cui ottenne il premio Oscar nel 1940, con il suo imprescindibile contributo a Citizen Kane (1941; Quarto potere) diretto da Orson Welles, si impose come il più rivoluzionario e stimato operatore del cinema hollywoodiano in bianco e nero grazie al suo enorme talento artistico e alle inesauribili doti di sperimentatore, che gli consentirono di portare al definitivo perfezionamento la tecnica del panfocus, in modo da estendere la profondità di campo e da mettere perfettamente a fuoco tutti gli elementi di un’inquadratura. Gli sforzi di Toland furono sin dall’inizio orientati in funzione dell’arricchimento della visione prospettica, in senso sia spaziale sia cromatico. Continuò a raffinare la tecnica del panfocus per tutti gli anni Quaranta, in film come Balls of fire (1941; Colpo di fulmine) di Howard Hawks, The outlaw (1943; Il mio corpo ti scalderà) di Howard Hughes, nel documentario di guerra December 7th (1943) che diresse con Ford, e soprattutto in The little foxes (1941; Piccole volpi) e The best years of our lives (1946; I migliori anni della nostra vita), entrambi diretti da Wyler, forse il regista che più di ogni altro incoraggiò la tensione realistica e drammatica delle sue immagini, raggiunta grazie a un progetto espressivo teso verso un continuo approfondimento.

Robert Burks: Il passaggio al colore

(4 luglio 1909 – 13 maggio 1968) Quando si pensa a Burks generalmente si parla di lui paragonandolo ad un camaleonte, per la sua flessibilità e duttilità ad orientare il proprio lavoro in base alle esigenze del regista. Hitchcok e Burks lavorarono insieme producendo più di dieci lungometraggi, tra cui i capolavori della storia del cinema moderno La finestra sul cortile (1954), Vertigo (1968) e Gli uccelli (1963). Ha vinto il Premio Oscar per la Migliore Fotografia nel 1956 con Caccia al ladro. Virtuoso di posizionamento e diffusione delle luci, ricreare in modo artificiale la luce naturale del giorno era uno dei suoi “passatempi” preferiti. Se si guarda con occhio attento molte di quelle scene, ci si accorge (e non sempre) di quante siano le situazioni in cui si passa da una luce artificiale ad una naturale senza che quasi se ne abbia percezione o in quanti casi nella stessa immagine siano combinate insieme parti di diverse inquadrature riprese in condizioni completamente differenti.

Freddie Young: Technicolor e Cinemascope

(Londra, 9 ottobre 1902 – 1º dicembre 1998) La carriera di Freddie Young è iniziata alla fine degli anni Venti ed è durata fino agli anni Ottanta. Una carriera lunghissima contrassegnata da molte pellicole di enorme successo. Contraddistinto da un’eleganza senza pari, ha vinto tre volte l’Oscar alla migliore fotografia: nel 1963 per Lawrence d’Arabia, nel 1966 per Il dottor Živago e nel 1971 per La figlia di Ryan. Vinse, inoltre, il Golden Globe per la migliore fotografia sempre per Lawrence d’Arabia.

Vittorio Storaro: La Nuova Hollywood

Nato a Roma nel 1940. È il maggior rappresentante di una scuola di pensiero che reclama dignità autoriale per il direttore della fotografia, definizione che considera inadatta a descrivere il proprio ruolo artistico e ha sostituito con quella di ‘autore della fotografia’ o di ‘cinematografo’. Avvezzo a impostare il suo lavoro sulla base di dicotomie ‘filosofiche’ (luce-ombra, giorno-notte, maschile-femminile), nei suoi film ha saputo rendere protagonista la luce. Sulla scia della fama ottenuta con il lavoro fatto per Bernardo Bertolucci ha esportato nella New Hollywood il suo modello fotografico, ottenendo grande successo grazie all’uso drammatico della luce in Apocalypse now (1979) di Francis Ford Coppola, film per il quale ha ottenuto nel 1980 il suo primo Oscar. Ne ha ricevuti altri due, nel 1982 per Reds (1981) di Warren Beatty e nel 1988 per L’ultimo imperatore (1987) di Bertolucci, oltre a una nomination nel 1991 per Dick Tracy (1990) di Beatty. Quattro volte candidato al Bafta Award, lo ha vinto nel 1991 per Il tè nel deserto (1990) ancora di Bertolucci. Ha ricevuto 5 Nastri d’Argento per i lungometraggi e 2 per i cortometraggi, un David di Donatello, un Goya, un Emmy e molti altri riconoscimenti. Figlio di un proiezionista della Lux Film, a 21 anni divenne il più giovane operatore alla macchina italiano. Esordì nel lungometraggio con Giovinezza, giovinezza (1969) di Franco Rossi, il suo unico film in bianco e nero, che nel 1970 gli procurò il primo Nastro d’argento. Venne poi chiamato da due registi che si stavano affacciando sulla scena: Dario Argento, per L’uccello dalle piume di cristallo (1970), giallo espressionista, e Bertolucci per Il conformista (1970) e Ultimo tango a Parigi (1972), che contaminano tonalità fredde e calde sfidando il gusto fotografico dell’epoca. L’incontro con Bertolucci lo segnò profondamente: da lui apprese la capacità di razionalizzare i procedimenti creativi. Iniziò così a mettere in relazione colore ed emozioni, miscelando la luce naturale (soprattutto quella dell’alba e del tramonto) con interventi di luce artificiale, come accade in Novecento (1976). Tra gli anni 70 e i 90 visse un periodo d’oro. Coppola gli affidò Apocalypse now, in cui applicò l’idea del conflitto fra luce naturale e luce artificiale alla guerra del Vietnam. Con Coppola ha illuminato anche Un sogno lungo un giorno (1982), Tucker (1988) e l’episodio La vita senza Zoe di New York stories (1989). Nel frattempo ha collaborato con Bertolucci per La luna (1979) e The last emperor, partecipando poi a Il tè nel deserto e Piccolo Buddha (1993). Tra i più raffinati esiti da ricordare il crepuscolare Il segreto di Agatha Christie (1978) di Apted e il fantasy Ladyhawke (1985) di Richard Donner, 2 esempi di magistrale utilizzo della luce naturale in una cornice di grande spettacolo. Tra gli altri registi con i quali ha collaborato sono da citare Carlos Saura, Giuliano Montaldo, Fabio Carpi, Elaine May, Alfonso Arau, Paul Schrader..

Sven Nykvist: Europa

(1922-2006) Operatore storico di Ingmar Bergman, è stato uno dei più importanti direttori della fotografia a livello internazionale, vantando una filmografia costituita da più di 130 titoli realizzati in tutto il mondo. Molti i riconoscimenti ottenuti nel corso di una prestigiosa carriera, fregiata da due premi Oscar, nel 1974 per Sussurri e grida (1972) e nel 1984 per Fanny e Alexander (1982), entrambi diretti da Bergman. Il primo passo nel mondo del cinema avvenne nel 1941 in qualità di aiuto operatore presso gli studi della Sandrews. L’incontro con Bergman, avvenuto sul set di Una vampata d’amore (1953), segnò una tappa di rilievo nella sua carriera. Il film rappresentò l’inizio di una collaborazione e di un’amicizia destinate a protrarsi per molti anni durante i quali, insieme, girarono ben 21 film. Nel 1959 il nuovo incontro con Bergman sul set di La fontana della vergine anticipò il radicale cambiamento, in materia d’illuminazione, che avrebbe influenzato il cinema del maestro svedese. Emerge la volontà di eliminare ogni effetto estetizzante della luce che si libera dell’artificio delle ombre con film rigorosamente in bianco e nero, dalla semplice e personale elaborazione luministica. Il suo obiettivo era la riproduzione di una luce naturale, catturata nei suoi impercettibili mutamenti. Pur con una certa reticenza, anche il colore fu oggetto di studio e di approfondimento da parte di Nykvist che ne comprese le innumerevoli possibilità espressive a partire dal premiato Sussurri e grida, di incredibile complessità per la scelta cromatica, che privilegia un colore, il rosso, come elemento di riflessione psicologica e di definizione dei caratteri dei personaggi. Richiesto da molti registi, ha lavorato, in Europa, con Volker Schlöndorff, Louis Malle, Roman Polanski e Andrej Tarkovskij. Negli Stati Uniti è stato chiamato sul set di Bob Rafelson (1981; Il postino suona sempre due volte) e Philip Kaufman (1987; L’insostenibile leggerezza dell’essere), prima di instaurare un rapporto di fiducia e di stima con Woody Allen che lo ha voluto per 4 film.

Kazuo Miyagawa: Nel mondo

(1908-1999) Ha lavorato per tutti i grandi registi giapponesi con uno stile nuovo, sensibile, ma rivoluzionario. Kazuo Miyagawa è nato a Kyoto. Da giovane, era un artista di talento nella pittura a inchiostro cinese sumio, i cui toni molto sottili e sfumature di grigio saranno presenti nel suo lavoro successivo nei film. Nel bianco e nero del famoso Rashomon (1950), nel quale è stato il primo operatore a sparare deliberatamente verso il sole, le sue ricche varietà di luci e ombre in realtà suggeriscono il colore, come fanno i classici dipinti a inchiostro. I caratteristici movimenti lenti e fluidi della sua fotocamera ci ricordano la forza e la delicatezza delle pennellate. Nel 1953 lavora per Kenji Mizoguchi in Ugetsu Monogatari e nel 1954 in L’intendente Sansho. Ha poi iniziato a collaborare con un altro grande regista, Kon Ichikawa, in Conflagrazione (1958), basato sul romanzo di Yukio Mishima, seguito da altre pellicole. Nel 1965 ha esplorato nuove strade nelle riprese usando una fotocamera a mano (come fece Ichikawa) per fare un documentario sulle Olimpiadi di Tokyo, Tokyo Orinpikku. In questo film, i movimenti improvvisati della macchina da presa assomigliano spesso a pennellate e gli permettono di stabilire un’intimità unica con atleti e spettatori. Con Yasujiro Ozu ha filmato il bellissimo e affascinante Erbe fluttuanti (1959). Il suo capolavoro resta però Rashomon di Kurosawa (1950) grazie all’uso elettrizzante della cinepresa.

Janusz Kaminski: 80s e 90s

(Ziębice, 1959) Operatore di grande talento, attento alle suggestioni della fotografia come a quelle della pittura, ha legato il suo nome, a partire dagli anni Novanta, ai film di Steven Spielberg: la sua maestria tecnica e la sua sensibilità narrativa gli hanno consentito infatti di adattarsi con grande naturalezza al multiforme universo visivo del regista statunitense. A partire dai toni documentaristici del bianco e nero di Schindler’s list (1993) fino al bagliore scintillante di Prova a prendermi (2002), si è sempre dimostrato un fedele e rispettoso interprete delle visioni del regista, segnate da una ricerca formale sospesa tra classicismo e sperimentalismo. L’eccellenza raggiunta da questo sodalizio artistico è stata celebrata da numerosi premi, tra cui i due Oscar ottenuti nel 1994 per Schindler’s list e nel 1999 per Salvate il soldato Ryan (1998). Arrivato negli Stati Uniti come rifugiato politico nel 1981, come molti suoi illustri colleghi ha esordito nel cinema con Roger Corman. Il successivo dramma Wildflower (1991), diretto per la televisione da Diane Keaton, ha segnato l’incontro con Spielberg che, impressionato dal suo lavoro lo incarica di illuminare Schindler’s list. Deciso a rendere la tragicità della situazione attraverso atmosfere sempre in bilico tra documentarismo e suggestioni espressioniste, ha tratto ispirazione dal libro fotografico di R. Vishniac A vanished world, struggente testimonianza della vita degli ebrei polacchi prima dell’ascesa del nazismo. Girato in un delicato bianco e nero, il film si apre al colore all’inizio per sottolineare il rito dello Shabbāt, alla fine per far vedere la realtà delle nuove generazioni che il gesto di Schindler ha permesso, e nei momenti in cui compare il cappotto rosso di una bimba, innocente vittima e allo stesso tempo vano simbolo di speranza di fronte all’orrore, ma anche segnale che trascina il nazista Schindler nella Storia. Consacrato a livello internazionale dal successo del film, ha poi collaborato con Cameron Crowe (Jerry Maguire) e Schnabel (Lo scafandro e la farfalla). Tuttavia si può dire che lavora praticamente in esclusiva per Spielberg con cui ha girato 18 film fino al 2018.

Maryse Alberti: Donne

(Langon 1954) Cresciuta in Francia, a 19 anni si trasferisce a New York. Compie il proprio apprendistato come assistente operatrice di macchina nel corso degli anni ottanta sui set dei film di Paul Morrissey. Si afferma come direttrice della fotografia, all’inizio degli anni novanta con il mélo Poison di Todd Haynes e la commedia romantica interrazziale Zebrahead di Anthony Drazan, in cui si mette in evidenza per «l’uso semi-documentaristico del colore e la capacità di risolvere con mezzi d’illuminazione leggeri situazioni fotografiche ambiziose». Con il documentario sull’industria della canna da zucchero in Florida H-2 Worker di Stephanie Black ottiene il premio per la fotografia al Sundance. Il documentario sulle riserve indiane Incidente a Oglala (Incident at Oglala) (1992) segna l’inizio della collaborazione con il regista Michael Apted, insieme al quale lavorerà più volte. Nel 1995 ottiene per la seconda volta il premio per la fotografia al Sundance Film Festival con Crumb di Terry Zwigoff, vincitore del Gran premio della giuria. Nel 1996 partecipa alla realizzazione di Quando eravamo re di Leon Gast, sullo storico incontro Foreman-Ali del 1974, che vince l’Oscar al miglior documentario. Il 1998 è l’anno di due dei film più importanti della sua carriera, la commedia nera Happiness – Felicità di Todd Solondz e soprattutto Velvet Goldmine di Todd Haynes, che permette alla Alberti di cimentarsi con una «meticolosa ricostruzione degli stereotipi visuali degli Anni Settanta» e di far rivivere «il linguaggio cinematografico di quell’epoca […] nonché il gusto luministico vistoso delle coloratissime luci dei concerti», grazie al quale ottiene il suo primo Independent Spirit Award. A metà degli anni duemila inaugura il sodalizio professionale con il regista Alex Gibney, a partire da Enron – L’economia della truffa, sullo scandalo Enron, candidato all’Oscar e vincitore dell’Independent Spirit Award per il miglior documentario, cui segue Taxi to the Dark Side (2007), vincitore dell’Oscar al miglior documentario. Tra le collaborazioni successive, documentari sullo scrittore Hunter S. Thompson (Gonzo: The Life and Work of Dr. Hunter S. Thompson), sul lobbysta di Washington Jack Abramoff (Casino Jack and the United States of Money) e sul governatore di New York Eliot Spitzer (Client 9: The Rise and Fall of Eliot Spitzer). Nel 2009 conquista il suo secondo Independent Spirit Award per The Wrestler di Darren Aronofsky, Leone d’oro al 65º Festival di Venezia.

Roger Deakins: Oggi

 (Torquay, 24 maggio 1949) è stato nominato ben 14 volte al premio Oscar, vincendone uno per Blade Runner 2049. Durante gli studi artistici, dimostrò un grande talento fotografico che lo portò a creare un documentario della sua città, Torquay. Dopo un anno decise di studiare alla scuola di cinema nel Buckinghamshire. Inizia la sua carriera lavorando come cameraman e assistente di produzione per vari documentari, in seguito cura diversi documentari sull’Africa, dedicati a paesi come lo Zimbabwe, devastato dalla guerra civile, Sudan ed Eritrea. Parallelamente ai documentari, lavora assiduamente come direttore della fotografia per film come Sid & Nancy, L’isola di Pascali e Le montagne della luna. Nel 1991 cura la fotografia di Barton Fink – È successo a Hollywood, dando inizio ad un sodalizio con i fratelli Coen, per i quali lavorerà in tutti i loro film, da Fargo, passando da Il grande Lebowski, Fratello, dove sei?, L’uomo che non c’era, Non è un paese per vecchi, fino a Il Grinta per il quale viene candidato nuovamente all’Oscar nel 2011 e vince il premio BAFTA 2011. Nel 2018, dopo ben 13 nomination, vince il suo primo Oscar per Blade Runner 2049. Ha lavorato inoltre per pellicole di successo come Le ali della libertà, Dead Man Walking – Condannato a morte, Hurricane – Il grido dell’innocenza, The Village, Nella valle di Elah, Prisoners e Sicario di Villeneuve e altri.

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