Truman. Il senso dell’amicizia

Truman (2015) SPA di Cesc Gay

di Gianfranco Angelucci

Un attore di teatro, Julian, è avviato a morire in tempi brevi per un cancro che si è già diffuso al fegato con danni irreparabili. Rifiuta pertanto il secondo ciclo della chemioterapia che gli protrarrebbe soltanto l’agonia, e in attesa del peggio si impegna a trovare una famiglia affettuosa per il cane Truman, un simpatico molosso che resterà presto senza padrone. Venuto a conoscenza di tale circostanza, l’amico di infanzia Tomas, che vive e lavora in Canada, si presenta inaspettatamente a casa sua, a Madrid, in occasione di un lungo ponte festivo. Il film racconta quei quattro giorni di sodalizio inattaccabile e di struggente viatico alla morte. Una bella sceneggiatura, mai lacrimosa, sorretta da due attori formidabili: l’argentino Ricardo Darin che abbiamo imparato ad ammirare nel poliziesco sentimentale “Il segreto dei suoi occhi”, e la spalla Javier Cámara, forse persino più efficace in un’interpretazione di esemplare, difficilissima sobrietà. La regia è misurata, mai invadente, e il film fila via triste e divertente, esentandoci da ogni angoscia ricattatoria.

Alla fine della vicenda Paula (Dolores Fonzi) la ragazza di Julian divorziato da vari anni, finisce a letto con Tomas la sera prima della partenza; come se entrambi non resistessero alla tentazione – alla sensuale necessità? – di riappropriarsi ‘fisicamente’ dell’uomo amato che sta per svanire, e si illudessero di rimediare al lutto imminente donandosi reciprocamente i propri corpi.

Il personaggio centrale della trama è il cane. “Ho due figli – dichiara il protagonista all’amico – uno è Truman”. Nel nome inglese qualcuno ha voluto rinvenire il significato riposto di true-man, vero uomo, ma a me sembra ‘tirato per la coda’. Chiunque abbia avuto un cane sa quale sia la propensione di ogni padrone a umanizzarlo, anzi a metterlo non solo sullo stesso piano degli umani, ma perfino uno scalino più sopra, per la sua misteriosa attitudine a non accettare alcuna diversità di razza, e spesso riuscendo a esprimersi con gli occhi a tali livelli di profondità che le parole non saprebbero raggiungere.

Il cane rappresenta il nostro naturale interfaccia con la ‘selva’, senza di lui conosceremmo meno noi stessi e il mondo che ci circonda. Fellini che aveva avuto un cocker di nome Arcibaldo, ripeteva spesso con stupore che il cane è l’unico animale del creato a preferire la compagnia di un essere vivente al di fuori della propria specie. Un enigma di non facile soluzione. In certi momenti viene da pensare che il cane sia un alieno inviato da altri mondi con una precisa missione che riguarda il nostro destino. Ancora Fellini nel suo film più arcano e mai realizzato, Il viaggio di G. Mastorna, in cui si spingeva ad attraversare il confine invalicabile tra la vita e la morte, immagina in una sequenza che il protagonista potrà salvarsi solo se riuscirà a incrociare lo sguardo di un innocente; e questo avviene quando scorge un cane che lo fissa intensamente al di là del finestrino di un’automobile ferma nel traffico. Che sia dunque il cane la promessa di salvezza, l’annuncio di un mondo migliore che ci attende?

Presso gli Egizi, è noto, il cane con il nome di Anubis era una divinità assimilabile forse allo psicopompo ellenico, colui che conduce le anime dei trapassati nell’Aldilà. Dunque un custode della soglia, che la stessa mitologia greca, con il nome di Cerbero, pone a guardia dell’ingresso degli inferi, su cui regnava il dio Ade. Ma l’aspetto di Cerbero è terrificante, un mostruoso cane a tre teste, il cui compito era di impedire ai vivi di entrare nella palude stigia ed ai morti di uscirne. Dante Alighieri nella sua Commedia lo colloca a custodia del III Cerchio (il girone dei golosi), dove è strumento di punizione in quanto graffia e scuoia gli spiriti con i suoi artigli (Inf., Canto VI). Seppure in una visione demoniaca dunque – dai musulmani è considerato un animale impuro – il cane appartiene in ogni caso a un interregno, o forse solo a un interstizio, tra noi e il mondo delle ombre, che può essere anche un universo semplicemente parallelo e sconosciuto al quale abbiamo accesso soltanto quando si creano smagliature tra le differenti dimensioni dell’essere.

Sul cane, molto più banalmente, proiettiamo sentimenti protettivi anche se è lui che ci protegge, difende la nostra persona, i nostri averi. Recentemente lo scienziato Pat Shipman, antropologo della Pennsylvania University negli Stati Uniti, ha ipotizzato su American Scientist che se l’uomo sapiens è prevalso nella storia dell’evoluzione sull’uomo di Neanderthal, probabilmente ciò è dovuto all’addomesticamento del cane che gli permetteva di riposare mentre lui faceva la guardia avvertendolo dei pericoli incombenti, minacciando gli intrusi; e inoltre lo aiutava a procurarsi il cibo con la caccia grazie al suo fiuto prodigioso.

Oggi il cane è prevalentemente un animale da compagnia su cui proiettiamo sentimenti paterni o materni occupandoci di lui e del suo benessere, rallegrandoci alle sue feste, e semplicemente innamorandocene come lui è innamorato di noi. Già lasciarlo al canile in occasione di un viaggio irrimandabile o per un breve periodo di vacanza, ci procura un acuto dispiacere; quindi può rappresentare una preoccupazione insormontabile la prospettiva di dovercene separare per sempre privandolo della nostra tutela e senza sapere che fine farà.

Julian prova ad accasare Truman presso persone perbene che si offrono per l’adozione, ma dopo pochi giorni corre a riprenderlo senza mai decidersi. Ora però che è arrivato il suo amico, si sente rassicurato: qualsiasi cosa succeda l’altro ci sarà. “Sai cosa ho imparato da te? – Confessa a Tomas in un momento di commozione – Che sai dare senza chiedere nulla in cambio”. E infatti l’amico anche in questa penosa circostanza è a sua disposizione, provvede lui a ogni necessità economica (l’altro se la passa proprio male, essendo stato allontanato dalla compagnia teatrale perché l’impresario, sebbene affezionato, è timoroso di compromettere le sorti dello spettacolo in corso), lo asseconda in ogni capriccio pur senza rinunciare a dire la sua, anzi persino litigando con lui. E quando Julian decide di volare in Danimarca per incontrare a sorpresa suo figlio che studia all’università di Copenhagen e non sa nulla della sua condizione, Tomas gli è accanto senza protestare. Purtroppo il giovanotto è tutt’altro che all’oscuro, anche se finge il contrario, e l’abbraccio tra padre e figlio, forse l’ultimo nella loro vita, possiede una muta e dolorosa dolcezza che lascia un graffio sul cuore.

Poi la situazione precipita. Tomas deve ripartire per tornare al suo lavoro, Julian continua a fare lo strafottente e a fumare senza più scrupoli. L’amicizia virile si è allargata in un amore a tre, anzi a quattro se comprendiamo anche Truman; e l’autore sembra spezzare una lancia a favore di quel famoso assunto per il quale l’amore universale può solo ampliarsi, mai diminuire. E magari negli occhi indulgenti di Truman, nel rumoroso sospiro che solo ai cani riesce così eloquente, si cela una strada di speranza.

(articolo21.org)

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