The woman king (2022) USA di Gina Prince-Bythewood
Nell’Africa del 1820, un’unità militare tutta al femminile del regno di Dahomey si prepara a combattere contro le truppe d’invasione dell’Impero di Oyo, il cui scopo è ridurre in schiavitù la popolazione conquistata.
Una “donna re” è sicuramente una regina, ma le Agojie, il cui nome significa “mogli del re”, non si conformano alle aspettative del loro genere: sono le guardie femminili del re, preferendo la disciplina della vita di un guerriero al sesso, al matrimonio, alla procreazione e alla servitù domestica che altrimenti sarà il loro destino.
Il film è ambientato durante il regno del Dahomey dell’Africa occidentale nel 1823; Ghezo era un vero re e le Agojie una vera forza combattente sotto di lui. Il generale Nanisca prende il nome da una persona reale, ma quella persona si unì alle Agoke nel 1889. Allo stesso modo, Nawi prende il nome da una vera donna che si dice sia stata l’ultima delle combattenti, morta nel 1979!
Quindi la sceneggiatura di Dana Stevens gioca con la cronologia storica, dimenticando la scomoda verità che il vero Dahomey sotto Ghezo non ha mai rinunciato al commercio di schiavi vendendo sia i prigionieri delle incursioni che i cittadini di Dahomey fino alla fine del suo regno tre decenni dopo. Non si menzionano nemmeno i sacrifici umani di massa compiuti ogni anno.
Insomma, l’opera cerca di rileggere un mito in modo esagerato e idealizzato. Le guerriere somigliano fin troppo alla milizia tutta al femminile di Black Panther (2018), rendendo questo film una sorta di storia di supereroi avanti lettera.
Certamente The Woman King è un’avventura epica, piena di feroci battaglie e audaci salvataggi, ma è anche un’esemplare chiamata alle armi femminista per la sorellanza africana per continuare a combattere – e ballare – come hanno fatto, o avrebbero potuto fare, nel Dahomey, con o senza l’approvazione del loro patriarca, in un film scritto, diretto, girato e montato da un insieme di donne.
Se questo è il pregio, non si può non rilevare l’improbabile riunione tra madre e figlia, nonché l’eccesso di retorica e di melodramma nei dialoghi e negli eventi. In fondo si sa fin dall’inizio chi è destinata a morire, chi farà cosa. La credibilità storica ai minimi termini fa il resto.