Sceneggiare per Fellini: tra finte case di tolleranza e il libero amore della hippy generation

di Gianfranco Angelucci

Peter Bondanella, ben noto storico del cinema italiano in America, professore emerito della Indiana University, ha appena pubblicato un nuovo poderoso volume dedicato alla nostra cinematografia indagata in tutte le sue pieghe: The Italian Cinema Book (BFI, British Film Institute 2014, p. 380). E’ un libro a molte voci, costato tre anni di lavoro, in cui la testimonianza diretta degli studiosi o dei cineasti si sostituisce al saggio tradizionale offrendo una lettura particolarmente vivace e istruttiva di una materia complessa. L’autore dell’articolo racconta, un estratto del suo intervento, in che modo sia diventato sceneggiatore di Fellini.

Appena conseguita la laurea all’Università di Bologna con una tesi su “Il Satyricon e l’opera di Federico Fellini”, il regista lesse e apprezzò generosamente il mio lavoro, proponendomi di stargli vicino senza che fosse chiaro a nessuno dei due in quale ruolo. Nei primi mesi del 1970 Fellini stava preparando il film “ROMA” in cui era prevista una sequenza sulle case di tolleranza ai tempi della sua giovinezza, unico approccio consentito con l’altro sesso fuori dal matrimonio. Così gli venne l’ispirazione di coinvolgermi. Forse per mettermi alla prova, forse per ‘sciogliere’ la mia rigidità di studentello, da vero maieuta mi incaricò di svolgere un’inchiesta su come veniva vissuto il sesso tra i miei coetanei dopo la fatidica ‘liberazione’ del ’68.

Raccolsi materiale dal vivo, lo inquadrai in un resoconto articolato e lo consegnai facendomi onore. Il produttore regolarmente mi remunerò (non mi sembrava vero!) e fui invitato a seguire la lavorazione del film. Il mio contributo intanto era confluito nella sceneggiatura di Bernardino Zapponi, e servì per impostare le sequenze del Fontanone dell’Acqua Paola sul Gianicolo, di Trinità dei Monti e di Villa Borghese.

Quello fu per me il battesimo del fuoco, dal quale però non riportai bruciature. Tutto si svolse anzi molto naturalmente; i rapporti con Federico si strinsero d’amicizia, e io continuai a stargli accanto senza accorgermi che il tempo passava, fino alla sua scomparsa. Intanto scrivevo per lui ogni volta che me lo chiedeva, con molta felicità. Perché mettermi alla macchina da scrivere nel suo studio di via Sistina, o di Corso d’Italia, o nel soggiorno di via Margutta, e dar forma alle idee che gli balenavano nella testa, era il più autentico divertimento che potesse capitarmi. Buttavamo giù soggetti, abbozzi di storie, caratterizzazioni di personaggi, dialoghi, scene più complesse; Fellini era un umorista nato, un imitatore di talento, un allegro mascalzone, un genio con la freschezza di un adolescente, e passare il tempo insieme era una festa mobile, un’occasione di risate.

Allo stesso tempo, essendo lui un’intelligenza superiore, imparavo senza sforzo a osservare il mondo e la vita attraverso un sguardo che non avrei mai più ritrovato; il suo punto di vista era sempre inaspettato, spiazzante, rivelatore; il lessico che utilizzava scaturiva da un vocabolario misterioso, zampillante di un’espressività mai prima incontrata, da lasciare stupefatti e ammaliati; le istruzioni disseminate senza parere sul cinema, sull’arte, sulla comunicazione, erano un alimento degno degli dei, nettare e ambrosia dell’Olimpo. Come staccarsi da un individuo così accattivante e fuori misura!? Non lo volevo, a nessun costo, e pur procedendo per la mia strada di regista, di scrittore, di sceneggiatore, il lavoro con Federico veniva sempre anteposto a ogni altro: impiegare la giornata al suo fianco, era un dono del Signore.

Fellini non indiceva mai riunioni di sceneggiatura, chiacchierava a ruota libera con l’uno o con l’altro, preferibilmente in macchina mentre si andava verso il mare di Ostia, poi assegnava i compiti e radunava il materiale sparso, anzi lo inghiottiva per restituirlo sottoforma di un filo scintillante, come un baco da seta. Per decenni era stato Tullio Pinelli, buon drammaturgo, a occuparsi con mano sicura della stesura finale del copione. Ma era sempre Federico a licenziare l’ultima versione, indipendentemente dai nomi che avevano cominciato ad avvicendarsi in sostituzione dei vecchi collaboratori, Bernardino Zapponi, Tonino Guerra. Fellini non aveva mai smesso di scrivere, abituato a riempire i fogli di extra strong con la sua Olivetti 32, a tagliare, incollare con lo scotch, la coccoina, la gomma arabica, e ricomporre a mano le pagine prima di mandare il brogliaccio in copisteria. Abbiamo scritto tutto così, libri, articoli, soggetti, interventi di ogni tipo, persino le interviste, che venivano ogni volta rivoltate di sana pianta con buona pace dell’intervistatore.

Poi un giorno, eravamo nel 1987 e io avevo già quarant’anni, non più ventidue come quando ci eravamo incontrati, mi chiese di scrivere qualcosa su Cinecittà: aveva intenzione di realizzare un film sugli stabilimenti di via Tuscolana che erano diventati la sua seconda casa. Misi insieme un lungo racconto, una specie di trattamento, e da lì partimmo per la sceneggiatura del film che in un primo momento si chiamava “Un regista a Cinecittà” e poi si intitolò “Intervista”; la sua penultima fatica, che gli assicurò il Premio Speciale della Giuria a Cannes e il Primo Premio al Festival di Mosca. Lo schema era quello per lui consueto del film nel film, una formula in questo caso elevata alla terza potenza, una meravigliosa “mise en abyme” che narra disinvoltamente il suo rapporto con la materia del racconto, tra memoria e stato presente. Questa volta, senza che io mai gli avessi chiesto nulla, decise da solo: “Firmerai la sceneggiatura con me”. Me lo disse facendo finta di niente, quasi ‘en passant’, sfiorandomi con la sua mano delicata i capelli, mentre già si alzava dalla sedia di regista per impartire ordini di scena durante una pausa di lavorazione. Fu la mia ‘investitura’: quella sensazione della sua mano è ancora viva, paragonabile alla spada del re che nomina un cavaliere.<iframe width=”560″ height=”315″ src=”//www.youtube.com/embed/LEQMqUo7Sv4″ frameborder=”0″ allowfullscreen></iframe>

Dopo “Intervista” abbiamo scritto altri progetti sulla medesima falsariga; Fellini aveva intenzione di dedicarsi a una serie di film sul lavoro cinematografico: avrebbe parlato del rapporto con gli attori, con il produttore, con l’opera lirica, con la città di Venezia e di Napoli, e avrebbe persino svelato la ragione per cui si ostinava a rifiutare le lucrose offerte che venivano dagli Studios hollywoodiani per trasferire sullo schermo l’Inferno di Dante. Erano tutte storie meravigliose che purtroppo sono rimaste nella sua testa, o soltanto abbozzate su fogli dentro un cassetto; dal momento che dopo “La Voce della luna” il regista malauguratamente scomparve a soli 73 anni; sette mesi dopo essere stato onorato in vita ancora da un Premio Oscar, il quinto, che l’ Academy of Motion Picture Arts and Sciences fece in tempo a tributargli.

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