L’Italia dell’esodo: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti

di Giovanni Scolari

Regia: Luchino Visconti Soggetto: Suso Cecchi D’amico, Vasco Pratolini, Luchino Visconti Sceneggiatura: Suso Cecchi D’amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli, Luchino Visconti Musiche: Nino Rota Fotografia: Giuseppe Rotunno Montaggio: Mario Serandrei Attori: Alain Delon, Renato Salvatori, Annie Girardot, Katina Panixou, Alessandra Panaro, Spiros Focas, Corrado Pani, Adriana Asti, Paolo Stoppa, Franca Valeri. Scenografia: Mario Garbuglia Costumi: Piero Tosi Produzione: Titanus, Roma; Les Film Marceau, Paris

LUCHINO VISCONTI: LA VITA E IL REGISTA

Luchino Visconti di Modrone (1906–1976) era figlio del duca Giuseppe Visconti di Modrone e di Carla Erba, proprietaria della più grande casa farmaceutica italiana. Fin da ragazzo è influenzato dal mondo della lirica e del melodramma: il salotto di casa Visconti è frequentato, tra gli altri, da Arturo Toscanini. La carriera cinematografica inizia nel 1936 in Francia, come assistente alla regia per Jean Renoir, conosciuto attraverso la comune amica Coco Chanel. Sempre in Francia entra in contatto con alcuni militanti di sinistra che ne influenzano le convinzioni politiche. Dopo un breve soggiorno a Hollywood, si stabilisce a Roma e qui l’incontro con i giovani intellettuali collaboratori della rivista Cinema sarà fondamentale. Da questo gruppo nasce una nuova idea di cinema che racconta realisticamente la vita. Su queste basi, insieme a Ingrao, Alicata e Giuseppe De Santis, nel 1942 Visconti mette in cantiere il primo film: Ossessione, ispirato al romanzo Il postino suona sempre due volte di James Cain. Con Ossessione Visconti dà inizio al genere cinematografico del Neorealismo. Il film ha una distribuzione tormentata in un’Italia sconvolta dalla guerra.

Visconti collabora con la Resistenza. Catturato nell’aprile del ’44 e imprigionato, si salva dalla fucilazione grazie all’intercessione dell’attrice Maria Denis. Alla fine del conflitto collabora a Giorni di gloria, un documentario collettivo dedicato alla Resistenza. Nello stesso tempo si dedica all’allestimento di drammi in prosa (rimase leggendaria la compagnia formata con Paolo Stoppa e Rina Morelli) e, negli anni cinquanta, anche alla regìa di melodrammi lirici, avendo l’opportunità di dirigere Maria Callas. Nel 1948 realizza La terra trema, adattamento dal romanzo I Malavoglia di Verga. È uno dei pochi film italiani interamente parlati in dialetto. Bellissima del 1951, tratto da un soggetto di Zavattini, con Anna Magnani, analizza con spietatezza il ‘dietro le quinte’ del mondo cinematografico.

Nel 1954 realizza il suo primo film a colori, Senso, ispirato a un racconto di Boito, con Alida Valli. Le notti bianche del 1957, ispirato al romanzo di Dostoevskij vince il Leone d’Argento a Venezia. Rocco e i suoi fratelli, del 1960, è la storia di una famiglia di meridionali trapiantata per lavoro a Milano, narrata con i toni della tragedia greca. Vicino al Partito comunista fin dai tempi della Resistenza, è soprannominato ‘il Conte rosso’. Il film vince comunque il Gran Premio della Giuria a Venezia. Nel 1962 Visconti mette d’accordo critica e pubblico con Il Gattopardo, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d’oro. Nel 1965 esce  Vaghe stelle dell’Orsa. Durante le riprese Visconti conosce Helmut Berger con cui avrà un’intensa relazione amorosa che, tra gli alti e bassi dovuti al movimentato stile di vita dell’attore austriaco, prosegue fino alla morte.

Realizza infine La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia del (1971) e Ludwig nel 1972. Il 27 luglio 1972 il regista viene colto da un ictus cerebrale che lo lascia paralizzato nella parte sinistra del corpo. Riesce ancora a girare due film, Gruppo di famiglia in un interno (1974), scopertamente autobiografico e di nuovo interpretato da Burt Lancaster e Helmut Berger, e il crepuscolare L’innocente (1976), tratto dal romanzo di Gabriele d’Annunzio. Muore nel 1976.

IL FILM

Alle soglie degli anni sessanta, di fronte alle trasformazioni in atto nella società italiana, Visconti sentì il bisogno di scendere nuovamente in campo per riflettere sulla società italiana osservata e descritta criticamente nei suoi conflitti umani e sociali. Presentato a Venezia tra moltissime polemiche, il film vinse un premio speciale della giuria. Subito dopo le prime proiezioni sorsero problemi con la censura, nonostante il film avesse ottenuto un regolare visto. Il procuratore capo di Milano chiese di togliere 15 minuti. Non accadde nulla, ma in molte sale si decise di oscurare le scene incriminate. La sceneggiatura richiese oltre un anno di lavoro, a partire dalla vaga idea del regista di fare un film su una donna con cinque figli e nel mondo della boxe. Il lavoro fu suddiviso tra diversi sceneggiatori. Ne uscì uno scritto ampio e articolato, successivamente orchestrato da Visconti con l’accentuazione di alcune sequenze. I richiami letterari sono molteplici: Testori soprattutto, ma anche la Bibbia, Mann, Dostoevskij, Scotellaro, Levi.

In primo piano è la tragedia, ma sullo sfondo ci sono il problema degli immigrati meridionali, la vita quotidiana in una città ostile. Secondo Visconti era il secondo capitolo de La terra trema. Il regista richiamava Gramsci citandolo a proposito del “carattere del mezzogiorno come grande disgregazione sociale e come mercato di sfruttamento (coloniale) da parte della classe dirigente del nord” considerando la questione meridionale come la “ questione centrale di unità del nostro paese”, auspicando infine la “ alleanza degli operai del nord con i contadini del sud, per spezzare la cappa di piombo del blocco agrario-industriale”.

Ciro è il fratello che, attraverso l’istruzione e l’accesso in fabbrica, acquista una coscienza di classe e comprende i propri doveri, ma anche i propri diritti, esplicitandolo al fratello più piccolo che potrà costruire, insieme a lui, una società più giusta. La scelta degli attori, dei volti è stata fatta in funzione di una messa in scena intimamente legata al melodramma e al teatro di prosa. Una continuazione, quindi, non una rottura rispetto alle tendenze emerse nel decennio precedente con vette quali Senso. La violenza, il sadismo, la crudeltà restano però la cifra stilistica del film ed è una visione tutt’altro che positiva. L’unione tra violenza ed erotismo, tra morte e sesso, tra eros e thanatos.  Lo sfondo ambientale, la disumanità della metropoli.

NOTE CINEMATOGRAFICHE

Il film è una produzione Titanus in cui appaiono i giovani Claudia Cardinale, Adriana Asti, Corrado Pani e Nino Castelnuovo. Da segnalare che al soggetto collabora anche lo scrittore Vasco Pratolini che aveva, nelle sue opere, cercato di tracciare il tragitto della classe operaia nel ventesimo secolo. Vi sono anche forti riferimenti letterari a Testori, in modo specifico ad alcuni episodi contenuti ne Il ponte sulla Ghisolfa.

La vicenda è costruita sul modello delle tragedie greche. I cinque figli della famiglia Parondi rappresentano ognuno un particolare stato d’animo del popolo.

• Vincenzo. Si è adattato perfettamente alla vita del nord, si può, anzi, dire che si è mimetizzato. Rappresenta la classe operaia che accetta lo status quo rispettando, come può, le tradizioni popolari. Si tratta di una sintesi impossibile. Il risultato è l’imborghesimento, passivo e abulico.

• Simone. Simboleggia colui che si fa affascinare dalla idea della ricchezza e pensa di poterla afferrare come qualsiasi borghese. Si mette perciò a rubare, come se tutto fosse suo. Cerca la stabilità sentimentale con Nadia, ma non capisce di non avere scampo in quanto la società non lo accetta e aiuta. Speculare a lui è la stessa Nadia. Poiché le loro illusioni non si sono avverate, vendono la dignità e il proprio corpo. Nadia, tuttavia, è l’agnello sacrificale del capitalismo, la vittima consapevole del proprio carnefice in una visione quasi cristologica nel momento dell’assassinio.

• Rocco. È il popolo che accetta il proprio destino. Capisce e vede l’ingiustizia, l’errore ma non vi si oppone, convinto com’è che sia nell’ordine naturale delle cose, nella struttura immutabile della società. Il suo unico desiderio è ritornare alla terra. “il paese nostro è il paese dell’ulivo, degli arcobaleni”. Ricorda con nostalgia il passato e non vede un futuro. La caduta di Simone viene vissuta da lui come una colpa da scontare, aggrappato ad un’idea tribale della famiglia e della religione. Quando parte militare, trova l’occasione per sfuggire alla famiglia e l’incontro con Nadia è l’unico momento in cui crede di poter cambiare il proprio destino. Rocco le racconta degli arresti dei contadini che avevano occupato la terra per protesta dopo la scadente riforma agricola. Ricorda con nostalgia il paese, si chiede perché non è stata data loro la possibilità di avere le stesse cose anche al sud. Non riesce a tramutare mai questo sentimento in qualcosa di propositivo.

• Ciro. È l’unico che intraprende un percorso di crescita quando giunge nella metropoli. Si mette a studiare perché capisce l’importanza dell’istruzione. Così facendo si costruisce una coscienza sociale sa, invece, vedere gli errori, rifiuta il concetto di fatica e obbedienza. Si deve, afferma, “Campare senza essere servi, ma senza scordarsi dei propri doveri”. Rocco perdona sempre, invece, si sottomette. Ciro è la classe operaia che comprende i diritti e lotta per ottenerli.

• Luca. È il figlio piccolissimo. Anche lui lavora, nonostante la tenera età. Nella visione ideologica di Visconti è il futuro che aspetta il proletariato Tra le righe la speranza del progresso è legato all’affermazione del comunismo. Non vi è certo un’affermazione diretta, ma la sceneggiatura è chiaramente impostata al pensiero marxista.

• La Madre. È portatrice di valori arcaici, chiusa nella superstizione e nell’ignoranza. Per lei, la religione è l’elemento portante della famiglia. La madre cerca di proteggere Simone cercando di giustificare anche l’orribile gesto compiuto. Nega la realtà e si assume la responsabilità dell’errore. Crede di aver sbagliato qualcosa, non riesce a vedere nella società il male che ha corrotto Simone.

Da sottolineare, infine, alcuni aspetti del film. I Parondi provengono dalla Lucania. Per questo accettano di vivere come prima casa in uno scantinato. Sono accolti malamente dai coinquilini che li vedono come esseri estranei, da allontanare pietosamente. Nelle parole dei milanesi, per tutto il film, vi è sempre del disprezzo nei confronti dei “meridionali”, di superiorità.

NOTE STORICHE

In Basilicata si assiste ad una ripresa dei flussi. Nel primo decennio post bellico espatria quasi il 16% di tutta la popolazione residente: la regione nel secondo dopoguerra perde quasi 250.000 abitanti. La ripresa dell’esodo, anche verso il nord d’Italia (soprattutto Milano e Torino), degli anni 1960 e 1970 documenta l’indubbio fallimento della riforma agraria (con la parcellizzazione e l’inefficienza della proprietà agricola), l’imprevidente politica di industrializzazione (con la creazione di siti produttivi senza futuro, le cosiddette “cattedrali nel deserto”) e il privilegiare settori come l’edilizia e gli uffici pubblici (con il rafforzamento del clientelismo e la nascita del “sistema della ricchezza senza sviluppo”).

Il censimento del 1961 dice che l’11% della popolazione, pari a 6 milioni di persone, vivevano fuori dalla propria regione d’origine. Tra il 1955 e il 1971 più di 9 milioni furono protagonisti di migrazioni interregionali, a cui bisogna aggiungere le centinaia di migliaia fuggite all’estero.

Questi massicci spostamenti ridisegnarono le identità culturali, sociali, geografiche del paese, rimescolate in un incrocio tra vecchio e nuovo, tra innovazione e resistenze. La pressione demografica sulle campagne meridionali scarsamente fertili, e sempre più parcellizzate, e l’accelerato sviluppo del triangolo industriale furono alla base dell’imponente flusso migratorio. La fuga dalle campagne comportò in molti casi la vera e propria fine di mondi e culture rurali.

Le città maggiori del nord e Roma furono profondamente trasformate dall’immigrazione. Le quattro più grandi città italiane (Roma, Milano, Torino, Napoli) contribuirono da sole al 66% della crescita demografica nazionale. Nel 1951 Milano aveva 1.274.000 abitanti, nel 1967 arrivò 1.681.000. Tutte le città dell’hinterland crebbero ad un ritmo ancora superiore. L’abitazione era il problema principale per gli immigrati al nord. A peggiorare le cose c’era un atteggiamento di chiusura e rifiuto della popolazione locale che spesso sconfinava in aperto razzismo. Queste famiglie si ritrovarono a vivere in solai, scantinati, garage, baracche in condizioni di sovraffollamento.

Fino al 1961 restò in vigore la legge fascista che consentiva il trasferimento in un’altra città solo a coloro in possesso di un lavoro. Il risultato fu la creazione di un’enorme massa di clandestini. Questo indeboliva la loro posizione sul mercato del lavoro, favorendo illegalità e sfruttamento.

I nuovi “italiani” sopravvissero attraverso le relazioni di tipo privato, familiari, parentali, amicali. Centrali furono la chiesa, con la rete dei parroci, e la famiglia (comprendendo con essa i compaesani e i parenti tutti) che assicuravano assistenza nella prima fase dell’arrivo in città, strutture ereditate dalle società tradizionali del meridione. La manodopera meridionale trovò così principalmente lavoro al di fuori dei canali legali. Pochissimi erano coloro che si iscrivevano agli uffici provinciali del lavoro. Entrare nelle fabbriche non era facile. Prima venivano scelti i lavoratori del luogo. I meridionali iniziavano soprattutto nell’edilizia e nell’artigianato. Per essere assunti in una grande impresa poteva essere determinante non essere iscritti ad un sindacato di sinistra.

Per molte donne il trasferimento al nord equivale all’uscita dal mercato del lavoro. Nel sud erano impiegate in lavori agricoli, spesso irregolare. L’emigrazione le catapulta in zone dove non c’è tessuto familiare, ma mancano anche servizi essenziali come i servizi sociali per i figli. Diventa così inevitabile la loro casalinghizzazione. Ma a spiegare l’emarginazione delle donne dal mercato del lavoro è soprattutto il modello di sviluppo che caratterizza il miracolo economico. La grande industria sceglie il personale in base a criteri precisi, ovvero la capacità di reggere elevati carichi di lavoro. Questo condusse alla progressiva mascolinizzazione della forza lavoro.

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