Correre per vincere anche a costo della vita: Rush di Ron Howard

di Gianfranco Angelucci

Nel 1975 la Ferrari con Niki Lauda era diventata campione del mondo di Formula 1. Gianni Agnelli aveva stretto un accordo industriale e di immagine globale con il commendatore Enzo e aveva messo a capo della scuderia il giovane pupillo Luca di Montezemolo. All’epoca curavo per i servizi culturali della RAI un prototipo dei futuri talkshow televisivi intitolato “L’ospite delle due”; andava in onda la domenica a fine pranzo quando milioni di famiglie erano incollate davanti ai televisori. Non ci lasciammo sfuggire l’occasione di dedicare una puntata ai leggendari bolidi rossi di Maranello che avevano assicurato all’Italia il podio più alto sulla scena mondiale. Invitammo negli studi di via Teulada la squadra al completo: il pilota austriaco, il secondo pilota, l’affabile svizzero Clay Regazzoni dai vistosi baffoni, l’ingegnere capo Bruno Iseppi che aveva contribuito in maniera determinante al successo, e naturalmente Montezemolo. Durante la conversazione apparve indiscutibile che il merito maggiore dell’impresa spettava a Niki, infaticabile collaudatore in pista delle auto, in grado di illustrare al team tecnico non soltanto i problemi meccanici ma la loro esatta soluzione. Lauda era un fior di professionista, liquidato con un po’ di malizia come il ‘computer umano’. Anche in “Rush”, il film di Ron Howard appena uscito sugli schermi, il campione viene ridotto a un ragioniere disciplinato, freddo, ambizioso e molto scolorito. Non lo ricordo affatto così. Lauda apparteneva a una potente famiglia austriaca dell’alta finanza, e deludendo le rigide attese del padre aveva rifiutato di raccoglierne l’eredità per inseguire la passione delle corse. Un destino che affrontò senza esitazioni dalla gavetta. Possedeva un’esatta percezione delle proprie capacità ed era determinato a primeggiare. James Hunt gli tagliava la strada dei Gran Premi, in un antagonismo in cui gli sceneggiatori hanno voluto esasperare il diverso stile di vita: uno consacrato al proprio talento come un monaco, maniaco della perfezione, fedele a una sola donna vissuta come concreto legame con la realtà; l’altro seduttore compulsivo con 5000 conquiste in carnet, fumatore, bevitore, dissipatore di energia e di affetti. Questa rivalità viene tradotta nel film in una contrapposizione romantica tra due individui eccezionali, ma anche tra due diverse culture, due etnie, due ceti sociali. La chiave narrativa avrebbe centrato l’obiettivo se a impersonare i personaggi fossero stati chiamati attori fuoriclasse. Per James Hunt, perfetta incarnazione dell’inglese che sperpera la vita raggiungendo vette sublimi venate di follia, ci sarebbe voluto un attore della forza di Peter O’Toole, o di Richard Harris, capaci di fornire carne e nervi e quello stereotipo britannico che corteggia la morte come il più affascinante dei fantasmi. Il film invece punta sulla rombante ricostruzione delle corse con l’aiuto di tecniche digitali che antepongono il realismo al sentimento complessivo; senza considerare che anche le Ferrari, per quanto affascinanti, hanno bisogno di un cuore. Cosicché la vicenda scolora in una piatta enunciazione di luoghi comuni. Gli italiani, in una siparietto da rivista, vengono raffigurati come ingenui e calorosi contadini abbagliati dal mito dell’eroe e dei motori. Tutto già visto e sentito. Howard che con “Apollo 13” era riuscito a restituirci l’epica emozionante delle imprese spaziali, non arriva a resuscitare poeticamente il sapore di una stagione leggendaria; neppure nella sequenza del Nürburgring dove è in agguato la tragedia e Lauda va a fuoco dentro la sua macchina, “una bara di benzina foderata di lamiera, una bomba lanciata a 300 km/h”, secondo la definizione di Hunt. Mi sono chiesto chi dei miti della cinematografia avrebbe potuto dare il volto all’austriaco; forse Ralph Fiennes del “Paziente Inglese”, assumendo l’accento teutonico; oppure tra gli attori in ascesa il geniale Christoph Waltz di Django Unchained. Il cinema è bello anche per sognare i cast e crederci tutti registi.

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