LA CULTURA PORTA PIU’ DONI DELLA BEFANA

di Gianfranco Angelucci

Per chi ama Fellini, da oggi c’è una novità, anzi uno spiraglio elettrizzante che riguarda il finale di Otto e Mezzo; una prelibatezza per specialisti che tuttavia non sarà sgradita agli innumerevoli appassionati del Maestro riminese. Si rende però necessaria una premessa. Il carosello finale del film più famoso, celebrato, idolatrato di Federico Fellini, del quale si sono appena celebrati i 50 anni, nacque come molti sanno da una coincidenza. Per girare il trailer da proiettare nelle sale in occasione dell’uscita dell’opera, Fellini aveva pensato di utilizzare la ‘rampa missilistica’ come centro dell’azione ed elemento scenografico. Tutti i personaggi della vicenda dovevano scendere dall’alta scalinata e avviarsi in fila indiana su una passerella al ritmo della marcetta trascinante, e via via galoppante, composta appositamente da Nino Rota: un’ideale parata da circo, o la tipica promenade degli attori al termine di una rappresentazione teatrale. Il regista voleva che ciò avvenisse in quella magica luce ‘a cavallo’, cioè al volgere del crepuscolo, che risulta così suggestiva sullo schermo; ma il direttore della fotografia, Gianni Di Venanzo, lo aveva avvertito che il tempo a disposizione era pochissimo, quindi bisognava risolvere la scena in una sola lunga inquadratura (che nel cinema si chiama piano-sequenza): o tutto andava liscio al primo ciak oppure l’impresa falliva non essendo più replicabile. Fellini, ostinato, insistette: venne caricato uno chassis di pellicola nella Mitchell e si diede il via alla ripresa. Quando Federico mi confidò i dettagli della ripresa, ed era la prima volta che ne accennava con me, le sue parole vibravano ancora di stupore e ne riferiva come di un evento di magia: tutto era proceduto secondo le sue intenzioni, senza un solo contrattempo, senza un minimo intoppo, dall’inizio alla fine. Un prodigio. La macchina da presa montata sul binario (allora non esisteva la steady-cam azionata a mano libera dall’operatore), seguendo, precedendo, accompagnando il movimento dei protagonisti assecondava la fluida, ariosa coreografia e portava a compimento l’azione nella brevissima manciata di minuti a disposizione prima che la luce venisse a mancare e la pellicola si esaurisse. Felici combinazioni che nel cinema avvengono una volta su un milione, una sorta di miracolo; e che infatti diventerà da subito un mito, un’icona mondiale per tutta l’arte cinematografica, studiata senza posa fino ai nostri giorni. Inoltre, ma questa è un’altra storia, c’era un ‘angelo’ a guidare la parata, circostanza che riporto per esteso nel mio libro “Segreti e bugie di Federico Fellini”.

Nel 2006 affrontai l’argomento per uno studente di cinematografia di Bucarest che si stava specializzando con una tesi su Otto e Mezzo e che venne a Roma a intervistarmi. Ricordai come l’ultimo finale fosse andato a sostituire una precedente versione già realizzata e ambientata da Fellini in un vagone ristorante; una sequenza fantasma di cui s’era persa ogni traccia a causa dello straripamento del fiume Aniene che aveva allagato i depositi della Technicolor sulla via Tiburtina rovinando in maniera irreversibile il contenuto delle scatole di tagli, doppi e scarti di Otto e mezzo. Solo da qualche anno Cinemazero ne ha recuperato e stampato alcuni scatti fotografici realizzati sul set da Gideon Bachmann. Restava tuttavia aperto un interrogativo: se il finale montato nella copia definitiva del film era stato ottenuto da un unico piano sequenza, chi aveva girato i primi piani che compaiono a inframmezzare la ripresa? Ed ecco che lo studente romeno, diventato nel frattempo vicedirettore della Scuola di Cinema del suo Paese, mi invia una lettera in cui racconta l’eccezionale scoperta alla base della sua tesi di dottorato ed ora pubblicata in un libro. Ne riporto l’estratto tradotto dall’inglese.

LA QUARTA DIMENSIONE DI OTTO E MEZZO

di Doru Nitescu

Come tutti sappiamo il finale di Otto e Mezzo doveva essere completamente differente: un treno nella notte, una carrozza ristorante e dentro i personaggi del film tutti vestiti in abiti bianchi. Anche il finale del film come noi lo conosciamo, riunisce insieme tutti i personaggi. Fino a questo momento ci eravamo trovati di fronte a diversi piani narrativi della storia: la realtà (la sua mimesis), la fantasia e la memoria. La fantasia e la memoria non sono visivamente distinguibili dalla realtà – e questa fu una delle straordinarie rivelazioni del film. La mimesis della realtà compare nella scena in cui la troupe del film guarda i provini (effettuati per il personaggio della signora Carla n.d.r.). “La realtà” dello schermo è appena una pallida imitazione della vera realtà. Forse perché ai provini manca la sostanza della vita.

Il finale di Otto e Mezzo non appartiene a nessuno dei tre registri succitati – realtà, fantasia, memoria – ma allo stesso tempo questa sua quarta dimensione include le altre tre. Dopo tutto l’essere umano non è la somma di tutte le sue esperienze: realtà, immaginazione e memoria? E così una mattina, guardando ancora e ancora questa sequenza di singolare bellezza, ho scoperto un elemento che non avevo mai notato prima, e di cui non avevo trovato accenno in alcun libro che avevo letto. All’interno di una inquadratura notai uno strano personaggio: qualcuno che sembrava non avere nulla in comune con la perfetta coreografia della scena, qualcuno che non partecipava al balletto finale dei personaggi. Osservando la scena più volte, ingrandendo l’immagine con lo zoom, mi accorsi che si trattava di un cameraman e del suo assistente (foto 1 e foto 3)

Naturalmente conoscendo tutta la storia di come la sequenza fu realizzata, dedussi che Federico Fellini posizionò più di una cinepresa per coprire l’intera ‘mise en scene’. Ma questa è soltanto una osservazione tecnica. Quando guardiamo un’opera d’arte ci scopriamo più interessati all’aspetto artistico che alla realizzazione concreta (le tracce dello scalpello lasciate sulla scultura non ci richiamano alla mente la presenza dell’autore, perché esse diventano tutt’uno con l’opera, fanno parte della scultura – come accade per esempio con i Prigioni di Michelangelo mai finiti). Nel caso di Otto e mezzo, ponendo dentro la ripresa il cameraman con la sua macchina da presa, Fellini creò una ‘mise en abyme’ in diretta (come farà in seguito in “Intervista”); la macchina da presa del cameraman non è soltanto un oggetto della ripresa, ma sta riprendendo nello stesso momento in cui viene ripresa da un’altra cinepresa; un Fellini invisibile.

La cinepresa invisibile infilata dentro la sequenza guidata da Guido (anche un occhio profano sa che è stata messa lì da Fellini), diventa automaticamente la cinepresa di Guido. E, ancora automaticamente, ciò che viene ripreso da quella camera (la camera di Guido) non è più una ripresa di Fellini ma di Guido. Il risultato di questa ripresa nella ripresa è un primo piano. E’ l’unica inquadratura del ‘film non fatto’ di Guido in Otto e mezzo. Che noi non solo siamo in grado di vedere, ma di cui allo stesso tempo possiamo vedere la realizzazione: film nel film, film in diretta, come un specchio che si riflette in un altro specchio. Se noi ci soffermiamo a considerare chi sia il personaggio che appare in quel momento in primo piano, ci accorgiamo che si tratta del medesimo telepata che, nella prima parte del film, riesce a cogliere il pensiero di Guido: ASA NISI MASA, cioè ANIMA in codice. Una coincidenza? Direi proprio di no!

Il cinema come magia, la magia del cinema. Lo studioso rilancia un tema ineludibile: al fondo di ogni mistero quasi inevitabilmente si annida l’anima in una delle sue innumerevoli sembianze. Questo dono di Doru Nitescu per il nuovo anno, arriva con l’Epifania, che significa in greco antico la ‘manifestazione’, l’apparizione di qualcosa di inaspettato. Ciò è avvenuto grazie all’arte di Fellini e alla nostra capacità di stupirci, un atteggiamento che ci permette di scorgere l’invisibile. L’augurio per ogni lettore è di non perdere mai questo sguardo.

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