Intervista a Marco Bellocchio – 2

Intervista effettuata da Giovanni Scolari e Massimo Morelli il 4.12.2012 a Travagliato (BS) durante la consegna del premio TESTIMONI DELLA STORIA

Diavolo in corpo e Buongiorno notte mostrano tematiche comuni. La prima è il ritorno del tema del terrorismo nei film che abbiamo citato (anche in L’ora di religione c’è un ex terrorista). La reazione del personaggio di Maya Sansa alla lettera di Moro con cui si è commossa, ne apre un’altra. Quella commozione era dettata dalla rabbia e la rabbia è l’elemento comune anche a I Pugni in tasca. Questi personaggi non trovano altro modo di sfogare questa rabbia se non rivoltandosi violentemente alla società cercando di distruggerla. Una volta consumata e capita l’inutilità del gesto, tutti cercano il ritorno alla normalità. Il Pulcini di Diavolo in Corpo, Ettore in L’ora di religione vogliono una vita normale che non hanno avuto proprio perché consumati da questo desiderio. Buongiorno notte, a maggior ragione, nonostante non sia la fredda cronaca del rapimento di Moro, diventa documento storico perché interpreta profondamente l’avvenimento in sé. Altro tema è la follia, presente anche in Bella addormentata. Ultimo tema. Costantemente, nei suoi film c’è un gruppo di persone che si isola dalla realtà: i brigatisti come gli studenti de Nel nome del padre. La televisione, la radio sono gli unici elementi di comunicazione. Quindi, la rabbia che si è trasformata in violenza richiede un desiderio di normalità, impossibile da interpretare se non usando dei media, dei palliativi.

Effettivamente, la rabbia è gestita in modo simile ma anche diverso. In I pugni in tasca questa rabbia diventa azione di annientare l’altro e di autodistruzione. Il finale è questo ragazzo che viene colto da una crisi epilettica mortale. C’è quasi una dimensione moralistica, cioè non si può permettere che si possa uccidere così impunemente, anche se poi quello che resta è un delirio di onnipotenza che arriva all’autodistruzione. È vero che anche nell’Ora di religione c’è un personaggio che pentendosi, così come quello del Diavolo in corpo, rientra nella normalità. È un pentirsi ambiguo, equivoco. C’erano tre posizioni tra i terroristi: gli irriducibili che andavano avanti fino in fondo dicendo che scontavano l’ergastolo però quello che avevano fatto non lo rinnegavano; i dissociati, coloro che riconoscevano il proprio errore, ma non accusavano, non facevano la spia, non facevano i nomi; infine c’erano i pentiti che si erano pentiti di essere stati terroristi, tra loro anche assassini crudeli, però pentendosi facevano i nomi dei loro compagni. Quindi, una normalità diversa. Nel diavolo in corpo c’erano tre gabbie e Pulcini era tra i pentiti. Il discorso sulla rabbia. Io ho sempre tentato di trovare uno sbocco, una risposta che non fosse né un’ipocrita normalizzazione, né una dimensione di totale autodistruzione. In questo senso in Buongiorno notte c’è infedeltà storica proprio perché io non accettavo questo discorso di una storia ineluttabile che porta alla tragedia senza nessuna catarsi. Il personaggio di Maya in qualche modo vede la disumanità di quell’azione e cerca attivamente di impedire l’assassinio di Aldo Moro. Il che storicamente non è accaduto affatto perché la Braghetti aveva partecipato e si è pentita o dissociata dopo che era stata arrestata e dopo aver partecipato all’assassinio di Bachelet. Rispetto al luogo chiuso. Evidentemente deriva dalla mia vita, dalla mia esperienza. Immaginare i luoghi chiusi (la prigione, il nascondiglio, la casa) dove la storia che viene dall’esterno viene comunicata essenzialmente attraverso la televisione, in modo diverso. Parliamo sia di Bella addormentata che Buongiorno notte. Ma anche Nel nome del padre in quanto arriva, mentre i collegiali pensano ad altro, dentro l’universo chiuso del collegio la notizia, comunicata per radio, della morte di Pio XII.

Il regista di matrimoni colpisce come una delle opere, al di là della riflessione di natura estetica legata al linguaggio cinematografico, alla capacità di ricerca delle immagini, che da esattamente la lucida radiografia di quello che era la situazione e condizione del nostro paese. Uno di questi luoghi chiusi, pensando alla sua ultima produzione dal Principe di Homburg in avanti, può essere in senso anche di luogo di forte carica distruttiva, malsana, la famiglia? È corretta come interpretazione che la sua riflessione intorno alla famiglia si sia sempre di più approfondita e modificata? All’inizio della carriera la figura femminile veniva restituita e raccontata con una carica prorompente e libertaria ma negli ultimi film si è quasi rovesciata e sono le figure maschili che appaiono sempre più accoglienti e benigne. Con Sorelle mai il percorso sulla famiglia si è concluso?

Le cose si concludono quando uno muore. Nel senso che ci sono dei temi che vengono abbandonati e soprattutto modificati. Il discorso sulla famiglia: non posso affermare che la famiglia è un disastro, una tragedia. Penso che ci siano anche famiglie che sono persino felici, in cui i figli vengono accuditi con una sincerità amorevole. Non posso neppure dire che la mia famiglia era così. No, perché sicuramente nello stare sempre insieme dentro alla famiglia, in nome di certi principi, io  ho sentito molto il soffocamento, l’ipocrisia, la dimensione di pavido assistenzialismo perché c’erano anche delle tragedie, delle disgrazie oggettive nella mia famiglia. Però sono delle costanti, non di tutte le famiglie, che si possono produrre in un microcosmo in cui, soprattutto per ragioni storiche, ci si deve difendere. Per esempio, la famiglia di oggi in cui veramente c’è una crisi gravissima, che ha come bisogno di difendersi, di barricarsi e sopravvivere materialmente, che cosa produrrà a livello delle passioni, dei sentimenti, della formazione delle identità? Certamente della famiglia ho cercato di cogliere, senza nessun disegno sociologico, le cose che più mi hanno sconvolto, riferendomi non solo alla mia, ma a tutte quelle famiglie di quella cultura che è stata la mia formazione. Leggendo Delitto e castigo di Dostoevskij c’è un momento in cui Raskolnikov parla in modo figurato della rabbia che lo prende. Allora, in qualche modo, idealizza la figura di Napoleone, la possibilità, il diritto del grande uomo di compiere massacri perché la sua grandezza lo giustifica.  Raskolnikov progetta e realizza un orrendo delitto vivendo, come dice l’autore, in una specie di canile in cui sta sempre solo, rimuginando, delirando finchè incontra quella vittima che in qualche modo lo salverà, messa sulla strada a 13 anni per causa di uno sciagurato padre ubriacone.

Vincere ha avuto un’accoglienza incredibile più all’estero che in Italia. Subito dopo la proiezione di Cannes le recensioni all’estero erano piene di entusiasmo mentre in Italia le critiche, poi corrette in una seconda visione evidentemente, esprimevano perplessità. Infatti, Vincere ha ottenuto molti riconoscimenti anche da noi. Il film è stato definito come futurista, in riferimento al ritmo che certamente ricorda il periodo storico in questione. Più che un film su Mussolini e il fascismo, sembra un film sul tradimento dei propri ideali. Non a caso Ida si innamora di Mussolini quando egli sfida Dio ad incenerirlo nella scena iniziale e quando lei continua ad urlargli con rabbia (ancora una volta la rabbia, insieme alla follia tema ricorrente) il proprio amore non riconoscendo più l’uomo oggetto della sua venerazione. E Mussolini stesso vive queste accuse come un riconoscimento di ciò che ha abbandonato. In questo senso, come riflessione storica, è un film sull’Italia, sul tradimento degli ideali che sono alla base degli elementi storici che hanno condizionato la nostra nazione.

Io ho vissuto parecchio e si è visto ripetutamente questo tradimento, un certo trasformismo opportunista da una parte di non avere una visione, una strategia globale che guardi non soltanto a dei ceti ma a tutta l’Italia. Dall’altra parte il malaffare, l’interesse privato che però è un aspetto, cioè la disonestà, il rubare in fondo a me personalmente non sono secondarie, assolutamente sono gravissime. Non a caso in Bella addormentata i due dialoghi di Herlitzka, lo psichiatra, prima con un suo collega poi con Servillo, riguardano entrambi la malattia mentale, cioè l’essere completamente inadeguati al ruolo che uno ricopre e non avere un rapporto con la realtà. Lui dice “Perché non ve andate a casa? Eravate degli ottimi professionisti, ma cosa state qua a fare? Andate via!” Questa inadeguatezza, quel minimo rapporto con la realtà, volendo fare della psichiatria un po’ rozza, divide e separa il malato di mente dal normale. Il normale ha un rapporto con la realtà concreto, invece tanti di questi politici sono completamente smarriti, non si rendono conto di non avere la minima capacità di stabilire un rapporto con la realtà, nel senso della gente. Uno può rispondere “No, è solo disonestà!” Io credo che possa essere disonestà, ma anche proprio il non avere rapporto con la realtà. Per cui l’Italia ha dei problemi pazzeschi, quasi disperati e c’è tutta una classe di governanti che non se ne rende conto.

Il taglio futurista?

A me interessava molto quella vicenda perché c’erano in quegli anni delle contrapposizioni gigantesche. Da una parte tutti i movimenti artistici: dal cubismo, al futurismo, l’arte esplodeva. In qualche modo Mussolini e il partito socialista rivoluzionario di cui lui era un leader era molto in sintonia i primi anni. Lui era storicamente molto amico di Marinetti e di altri futuristi i quali poi decisero, insieme a tanti socialisti, di diventare interventisti e successivamente fascisti, mentre alcuni socialisti interventisti della prima ora capirono e si tirarono indietro. Se pensiamo a Nenni, a Pertini e ad altri che scelsero strade diverse. Lui, invece, diventando interventista, pensò lucidamente che il suo destino era quello di prendere il potere.  Allora, anche il Futurismo fascista si svuotò della sua dimensione rivoluzionaria.

Mussolini puntò molto, non a caso, sul cinema.

Tutte le dittature, anche Stalin, Hitler, capirono che era un po’ l’equivalente della televisione oggi. Il cinema era un potere, cioè l’immagine per la prima volta, ma lo dicono gli storici, non lo dico io, fu il primo grande statista italiano che capì la potenza dell’immagine. I capi del governo che lo precedettero non sapevamo neanche che faccia avessero. Lui capì che doveva impadronirsi del cinema, della radio, dei manifesti proprio per imporre la propria immagine. E ci riuscì perfettamente.

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