Il figlio di Saul. L’orrore annebbiato

Il nostro parere

Il figlio di Saul (2015) UNG di Laszlo Nemes

L’Olocausto ha ispirato decine di film, molti dei quali bellissimi, indimenticabili. Theodor Adorno pronunciò però la seguente frase: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Nel 1961 Rivette attaccava violentemente Kapò di Pontecorvo con queste motivazioni “Quando c’è da filmare una persona che muore in un campo di concentramento, non devi fare un virtuosismo con la macchina da presa, non devi cercare un effetto di composizione del quadro, non devi lasciarti andare alla sbrodolata retorica”.

Dopo tante pellicole Nemes forse ha riflettuto su queste parole temendo di andare ad arricchire la schiera dei retori che, con stile più o meno traballante, nulla hanno aggiunto alla narrazione dell’orrore. Il campo di sterminio, la banalità del male non può essere resa adeguatamente. Nonostante ciò una strada è stata trovata. Il regista ungherese ha concentrato la ripresa sul personaggio principale stringendo il campo e mettendo fuori fuoco tutto l’ambiente circostante. Ci immergiamo così nell’universo ovattato, appannato di un elemento del sonderkommando, il gruppo di ebrei deputato a svuotare le camere a gas e a bruciare i cadaveri.

Raccontare senza cadere nella retorica, nella tentazione del dettaglio, dell’immagine nitidamente classica, era praticamente impossibile di fronte ad un livello inimmaginabile della bestialità. Isolando, invece, Saul, assumendo il suo punto di vista inebetito, a tratti folle di stanchezza mista a rassegnazione, Nemes circoscrive lo sguardo ma accende l’immaginazione. Arriva così al cuore dello spettatore l’angoscia, la disperazione di una condizione subumana, inaccettabile per chiunque.

E l’indeterminatezza dello sfondo si contrappone al fulgore dei primi piani, ai violenti contrasti della fotografia. La decisione di Saul di considerare il cadavere del ragazzino, come quello del proprio figlio (è effettivamente il suo o è semplicemente impazzito?) diventa secondaria di fronte al suo peregrinare disperato in mezzo alla disperazione degli altri. Il figlio di Saul inciampa solo sul ritmo. I suoi difetti sono anche gli enormi pregi. Il volto svuotato di Saul non da spessore alla recitazione. Se da un lato la decisione del regista conferisce maggiore autenticità, dall’altro viene a mancare la psicologia completa del personaggio.  Usare sempre la soggettiva ha permesso una totale immersione nella mente del protagonista ma impedisce di cogliere l’insieme. Difficile dire se Nemes poteva fare meglio. Certamente ha fatto bene. Molto bene.

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