Gli sdraiati. Generazioni

Il nostro parere

Gli sdraiati (2017) ITA di Francesca Archibugi

Dal sito CINEFORUM.IT

C’è una striscia a fumetti degli anni Novanta, molto popolare anche oggi, che si chiama Calvin and the Hobbes, che mostra bene le difficoltà che gli adulti hanno a entrare nel mondo dell’infanzia o dell’adolescenza (o comunque nelle età della vita che non sono l’età adulta). Questo fumetto racconta le vicende di Calvin, un bambino casalingo e un po’ solitario, e del suo migliore amico: una vecchia tigre di pezza. Quando Calvin è da solo, la tigre prende vita e diventa protagonista delle più incredibili avventure, mentre quando i genitori entrano nel campo visivo, la tigre torna a essere un ammasso sgualcito di stoffa, muta e inerte. La rappresentazione degli adolescenti, dei pre-adolescenti o anche dei bambini nell’immaginario contemporaneo ma soprattutto nel cinema, incontra spesso gli stessi problemi: o si è capaci di produrre uno sguardo interno sul loro immaginario, le loro forme di vita, il loro linguaggio (e spesso il cinema o la tv americana contemporanee sono stati in grado di farlo, come nel caso di Freaks & Geeks) o diventano semplicemente un ammasso sgualcito di stoffa, o un’espressione informe di disagio e apatia.

Gli sdraiati, il libro di Michele Serra così come il film che ne ha “liberamente” tratto Francesca Archibugi, sono il corrispettivo dello sguardo dei genitori di Calvin: degli adolescenti riescono a vedere soltanto il loro essere “pezza sgualcita”, i loro mugugni, la loro pigrizia, la loro apatia, il loro stare costantemente attaccati agli schermi dei cellulari e le loro risposte fatte di monosillabi. Gli sdraiati infatti sarebbero loro, che stanno sempre in posizione “orizzontale” sui divani senza essere capaci fino in fondo di vivere davvero mentre il padre vorrebbe fargli apprezzare i tramonti o la bellezza delle passeggiate in montagna.

Gli adolescenti sono insomma muti: al limite si ammassano l’uno sull’altro sui divani o fanno cose incomprensibili come esaltarsi per delle felpe di cattivo gusto. Tuttavia se nel libro di Serra – al netto del suo moralismo reazionario e del qualunquismo di cui grondano le pagine –  quest’incapacità di creare un dialogo con il mondo dei figli è un punto di forza del dispositivo letterario, che infatti trae la sua efficacia dall’essere un monologo (o per meglio dire, un dialogo senza risposta), l’idea di Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, autori della sceneggiatura, di farne un romanzo familiare si mostra già da subito come problematica per la riuscita del film.

Anche quando vediamo gli adolescenti da soli, quando cioè il loro mondo non è filtrato dagli occhi degli adulti, la loro lingua è semplificata (mentre i gerghi adolescenziali sono tutt’altro che espressione di una visione del mondo semplice), le loro relazioni stereotipate, la storia d’amore che dovrebbe fare da filo rosso del film non ha alcuno sviluppo autonomo. Insomma, lo sguardo rimane quello del monologo interiore di Serra ma senza che del libro si conservi la riflessione tormentata sulla paternità o sulla difficoltà che un uomo di mezza età ha nell’assumere un ruolo di autorità. Il tema fondamentale di Gli sdraiati è infatti quello di un padre che non riesce a sentirsi amato dal proprio figlio, ma tutto questo paradossale rovesciamento dell’equilibrio del rapporto tra padre e figlio – uno dei fenomeni che molti psicoanalisti considerano come dei più sconcertanti dei rapporti generazionali contemporanei – che non è privo di una certa drammaticità, nel film dell’Archibugi inevitabilmente si perde anche per via dell’interpretazione di Claudio Bisio che invece tende quasi naturalmente a introdurre un registro comico.

Tuttavia, come spesso accade in questi casi, le aggiunte che il film della Archibugi introduce a partire dal libro di Serra sono piuttosto interessanti. La solitudine del padre viene svolta in una sorta di sub-plot adulterino dove ci viene detto che il divorzio tra la madre e il padre di Tito, il giovane figlio attorno a cui ruota il film, è avvenuto a causa dei ripetuti tradimenti di lui. Quando il figlio inizia una relazione con una compagna di scuola, il padre scopre con sconcerto che la madre di questa ragazzina è una donna che anni prima faceva le pulizie a casa loro e con la quale lui aveva avuto una relazione extra-coniugale. La difficoltà di assumere il ruolo di padre viene quindi efficacemente “fantasmatizzato” nel film in una sorta di proiezione paranoica della propria colpa. Non solo il protagonista non riesce ad assumere il ruolo di padre, a farsi rispettare e a farsi amare da suo figlio, ma addirittura si immagina che il proprio errore passato ora spinga il proprio figlio a una inconsapevole relazione incestuosa con la sorellastra (e qui la Archibugi e Piccolo colgono bene il sostrato un po’ megalomane del libro di Serra).

Allo stesso modo viene introdotta una scena con uno psicologo (bellissima l’idea delle tre sedie, con la madre presente come “posto vuoto”) che riesce in modo efficace a drammatizzare visivamente i problemi della relazione tra padre e figlio, e il fatto che il problema familiare non nasca da una banale mancanza di comunicazione, ma dalla coesistenza di punti di vista strutturalmente incompatibili. Un esempio questo che mostra come una struttura “da camera”, in interni, più improntata su blocchi di dialoghi, avrebbe forse espresso meglio l’evoluzione delle relazioni contemporanee piuttosto che questo ibrido tra teen movie e film famigliare che rischia invece di annacquare un tema che meriterebbe una riflessione sulla propria messa in scena di ben altro tenore.

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