di Gianfranco Angelucci
Probabilmente, stando all’aria che tira, è un film che vedranno in dieci persone. Però auguro ai lettori di far parte di quei dieci. Perché dietro l’opera c’è un autore; non uno strimpellatore che orecchia, o qualcuno che cavalca l’onda, o che sfrutta il main stream; ma un artista che si interroga su un rovello che non cessa di pesargli sul cuore e tenta di darsi una risposta. O quantomeno di affidarla all’intelligenza dello spettatore. Il film è Foxtrot, del regista israeliano Samuel Maoz che quasi dieci anni fa diresse, al suo esordio, un piccolo capolavoro di tensione bellica e psicologica intitolato Lebanon. Il regista infilava lo spettatore dentro un carro armato sferragliante e lo trascinava nel cuore del conflitto fra Israele e Libano del 1982, riflettendo sull’inconcepibile bestialità della guerra. 92 minuti ad altissima tensione, girati quasi interamente nell’abitacolo claustrofobico del mezzo cingolato inviato a ‘ripulire’ un villaggio già bombardato dall’aviazione.
In Foxtrot, vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia, la domanda pronunciata una sola volta rimane drammaticamente sospesa sull’intera narrazione: “Contro cosa combattiamo?” Non contro chi, ma contro cosa. E a chiederselo sono quattro ragazzi in divisa dislocati in uno sperduto check point in mezzo al deserto, lungo una fettuccia di strada asfaltata che si perde a vita d’occhio nel nulla. Qualche volta appare solitario un cammello, privo di bardature e di padrone, e allora i soldati sollevano la sbarra e lo lasciano passare. Senza chiedere i documenti.
La storia ha uno svolgimento a nuclei narrativi distinti, in cui però si intersecano i piani temporali e i protagonisti possono confondersi tra loro, diventando nell’astrazione fantastica una sola persona. In nome del foxtrot; che è una danza figurata ormai lontana dalla nostra epoca ma non dalla nostra memoria, perché emotivamente associata all’America, insieme al ragtime da cui discende. Un ballo che durante il Fascismo veniva spregiudicatamente suonato al grammofono, nelle case private, dai giovani anticonformisti; lo troviamo in Giorgio Bassani (“Il giardino dei Finzi Contini”), lo ritroviamo nel film “La Famiglia” di Ettore Scola. Nella nostra cultura il suo ritmo allegro evoca il sapore inebriante della libertà, e il suo piglio atletico anticipa nello spirito l’esplosione del rock ‘n roll nel secondo dopoguerra. La censura mussoliniana lo aveva ribattezzato “ballo volpino” (fox trot indica il rapido scarto a destra o sinistra della volpe in fuga): un passo avanti e uno di lato a destra, un passo indietro e uno di lato a sinistra. Preferibilmente accanto a una ragazza disinvolta che lasci svolazzare nel movimento la larga gonna a campana. Ma se la ragazza non c’è, se si è irrimediabilmente soli, si può anche canticchiare il motivo stringendo al petto il proprio fucile e fantasticando al suo posto chissà quale pupa da sogno. Simile all’immagine pubblicitaria stampata sulla fiancata dello sgangherato pulmino del check point, chioma bionda e labbra vermiglie pericolosamente vicine a uno spumoso cono gelato. E’ con lei che il ragazzo con gli occhiali balla rapito il suo foxtrot, avvolto dalla luce del tramonto, prima che il sole si inabissi all’orizzonte.
A stacco, due militari in impeccabile uniforme e faccia d’occasione, bussano alla porta di una villetta borghese: la madre apre, li vede, e sviene. Ha capito che sono annunciatori di sventura. Il figlio è morto. Lei viene adagiata a braccia sul letto e sedata; il padre, imbambolato dalla batosta, mette il dorso della mano sotto l’acqua bollente del rubinetto fino ad ustionarsi, per contrastare con il dolore fisico la sofferenza interiore che lo annienta. Va in escandescenze, pretende che gli venga restituito il corpo del figlio, il quale purtroppo non esiste più, disintegrato da un ordigno esplosivo. Sulla casa si addensa il lutto, impenetrabile come una cappa nera. Le riprese più volte sono effettuate dall’alto, inquadrature verticali a piombo sulla netta geometria degli spazi e sui movimenti dei personaggi che, in quell’ottica straniante, appaiono marionette su un palcoscenico o statuette intagliate di un congegno a orologeria. Scopriremo perché – o così ci sembra – con il progredire della storia.
I personaggi della vicenda, cioè tutti noi, sono figuranti di una danza macabra di cui non si conoscono né le ragioni né le regole. Distinguiamo soltanto la ripetizione di passi preordinati, come avviene appunto nel foxtrot.
Ma chi sono quei quattro soldati, giovanissimi, di postazione dietro una gigantesca mitragliatrice, abbandonati al loro destino nel cuore del deserto con le scatolette della razione militare e uno squallido container in cui riposare a turno? In quale immaginaria garitta montano di guardia contro un nemico invisibile? Assai di rado transita una macchina, si suppone di palestinesi, magari in piena notte. Con il cuore in gola e la torcia a mano puntata sui volti dei passeggeri, i militari controllano l’identità e il carico; una volta è una coppia equivoca, un’altra un camioncino stipato di giocattoli, una terza un gruppo di ragazzi e ragazze in vagabondaggio notturno…
Mentre i genitori nella loro casa si struggono e si dilaniano reciprocamente per il lutto insopportabile, giunge all’improvviso la sconvolgente, imbarazzata smentita dalle alte gerarchie militari: il loro figlio non è morto, c’è stato un malaugurato scambio di nomi! La felicità tracima con impeto non inferiore alla rabbia! Il padre rivuole il suo ragazzo a casa, subito! Immediatamente! Vuole rivederlo con i propri occhi, vuole tenerlo tra le braccia, vuole restituirlo alla madre diventata quasi pazza dal dolore! Esige che parta, senza altri indugi!
Poco prima, in un cassetto, annaspando senza posa alla ricerca di frammenti di memoria, di sacre reliquie del figlio creduto morto, ha ritrovato tra le cianfrusaglie un vecchio numero di Playboy, con la magnifica playmate del mese che sorride nuda e invitante dalla copertina. Una gnocca per cui perdere la testa e il cuore, specialmente su quel paginone centrale in cui campaeggia a figura intera, fotografata in ogni dettaglio, più vera del vero. Dio quanti amplessi immaginati, quante ore insonni! E l’attesa impaziente di poter gettare via la divisa, tornare alla vita civile per saziarsi a volontà di una donna in carne e ossa! Poi in piena notte, imprevedibile, quell’incidente sciagurato al check point: l’auto con dentro quattro ragazzi che, ottenuto il via libera, al momento di ripartire lascia cadere dalla portiera una lattina… “Granata!” urla terrorizzato uno dei soldati e la mitragliatrice crepita all’istante, sputa fuoco all’impazzata perforando le portiere e falciando senza rimedio chi c’è dentro. Una carneficina per una birra vuota. Un brutto affare che i vertici militari si affrettano tempestivamente a soffocare. In un baleno arrivano i caterpillar, spalano un’enorme buca in cui depositano la macchina e i corpi che contiene, ingoiati per sempre dal deserto. Il ragazzo in divisa, con gli occhiali, che è un bravo disegnatore di fumetti, ha riprodotto la scena su un foglio di carta: la possente gru che stringe tra le fauci d’acciaio l’auto crivellata prima di scaraventarla nella voragine e di ricoprirla sotto una compatta montagna di sabbia.
Ma da quale mano è stato veramente schizzato quel disegno inopportuno, pesante come un macigno sulla coscienza: forse, al tempo del proprio servizio di leva, dal padre stesso, oggi architetto famoso e perfettamente integrato nella società di cui fa parte; oppure dal figlio disegnatore in erba che sta per tornare a casa grazie a una licenza inattesa quanto incomprensibile? E a chi dei due apparteneva il fascicolo patinato di Playboy, quel sogno erotico e proibito di una vita normale, che viene negato, spezzato, macinato dalla infetta follia della guerra?
Il tema del film ruota attorno a un finale, non rivelabile naturalmente, nel quale la storia assume un ghigno tetro, la risata convulsa di una tragedia che vira insensatamente al grottesco. E al centro il destino assurdo di quel golem di creta e fango che è la creatura umana, sottoposta alla volontà cieca e imperscrutabile di un remoto burattinaio al quale non sa rassegnarsi.