Borg McEnroe. Sfida per l’eternità

Il nostro parere

Borg McEnroe (2017) DAN/SVE/FIN di Janus Metz

Chi ha vissuto il tennis a cavallo degli anni settanta/ottanta ha imparato ad amare tanti campioni indimenticabili come personaggi e uominia, ancora prima che atleti. Panatta, lo sciupafemmine che ha in parte sciupato il proprio talento, il poeta Vilas, il ribelle Gerulaitis, l’eterno Connors hanno acceso la fantasia degli spettatori. Più di tutti, però, due hanno entusiasmato e segnato un’epoca: Bjorn Borg e John McEnroe. Il primo è stato rappresentato come un robot, senza emozioni, il secondo come un cattivo ragazzo dal talento infinito. I due match in finale per la vittoria a Wimbledon sono stati incontri mitici e mitizzati al punto che oggi il primo, dopo oltre trent’anni, è al centro di un film che racconta il percorso che i due hanno compiuto verso la finale. Un percorso di gioco che è, anche, un percorso di vita in quanto in parallelo i due rivivono, con lo strumento del flashback, la loro infanzia difficile che ha costruito il loro carattere. L’apparente glacialità di Borg nascondeva un vulcano in eruzione, una volontà di ferro piegata da un’ambizione spropositata che lo rendeva ingestibile, caratterialmente impossibile. Analogamente la gioventù di McEnroe è stata dominata da una tensione insopportabile verso l’unico obiettivo: essere il più grande. Per raggiungerlo McEnroe rinuncia a qualunque cosa, persino la sua umanità. Il film è il racconto di questi due uomini verso il match più atteso della loro vita.

Metz non è un regista famoso eppure crea una forte tensione narrativa lungo tutta l’opera. Ovviamente chi ha subito il fascino di quelle sfide personalmente è attratto dalla vicenda, incuriosito dallo scoprire i caratteri dei due atleti. Nell’alternanza del montaggio e dei piani temporali, Metz sa tracciare un solco emotivo che lo spettatore segue fino alla liberatoria scena finale. In questa dinamica, pur al netto di alcune semplificazioni, sa supportare l’intreccio che non prevede colpi di scena ma solo una intelligente struttura narrativa che trova il suo nucleo nella vittoria che i due atleti conseguono simultaneamente sui propri demoni interiori.

Il tennis, quello giocato, rimane sullo sfondo, grazie al lavoro di computer in cui le immagini reali e quelle girate si mescolano in modo indissolubile. La finale è specchio dei tormenti personali dei due tennisti, più che la cronaca di un evento sportivo che rimane sullo sfondo in modo da far ammirare il potenziale estetico del gesto tennistico, la geometria dei colpi e delle linee. Incredibile la somiglianza di Gudnason con Borg.

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