10 registi morti nel 2023

Prima di passare alle dieci figure più significative individuate tra coloro che sono scomparsi lo scorso anno, vogliamo citare Elliot Silverstein (1927-2023) che ha girato Cat Ballou (1965) e Un uomo chiamato cavallo (1970). Da sottolineare  che sono diverse le figure scomparse del cinema inglese.

10. Malcolm Mowbray (24 giugno 1949 – 23 giugno 2023) Ha iniziato la sua carriera in televisione. Nel 1984, ha esordito nel lungometraggio con Pranzo reale. Ha diretto e co-scritto con Alan Bennett, con il quale ha condiviso l’Evening Standard British Film Award per la migliore sceneggiatura. Si è poi trasferito a Los Angeles per continuare a lavorare nel cinema, anche se è tornato in Gran Bretagna negli anni ’90. Il suo ultimo lungometraggio è stato Meeting Spencer, nel 2011. Nel 2016, è stato nominato capo della regia alla Northern Film School di Leeds. Mowbray sposò Valerie Hill nel 1977. È morto per complicazioni di demenza il giorno prima del suo 74o compleanno.

9. Horace Ovè (3.12.1936– 16.9.2023) E’ stato il regista rivoluzionario di Pressure, il primo lungometraggio britannico diretto da un nero, nel 1975. una figura fondamentale nel panorama della cultura britannica. Il suo lavoro su medium tra cui film, televisione, teatro e fotografia è stato caratterizzato da una combinazione unica di umanesimo tattile, brutali insentimentalità e un impegno inesorabile a descrivere come per la prima volta le voci nere si sono alzate per ritenere il mondo responsabile della negligenza e dell’ingiustizia che era stata la nostra storia. Combatteva da anni l’alzheimer.

8. Jacques Rozier (Parigi, 10 novembre 1926 – Théoule-sur-Mer, 2 giugno 2023) Dopo aver studiato cinema e lavorato in televisione, dalla metà degli anni Cinquanta ha realizzato alcuni cortometraggi precursori della Nouvelle Vague, Rentrée des classes (1956) e Blue Jeans (1958). Nel 1962 debutta nel lungometraggio con Desideri nel sole (titolo originale: Adieu Philippine), tra i film più emblematici di quel movimento. Girato in Corsica tra mille traversie produttive (molti gli scontri con Georges de Beauregard, produttore che gli viene presentato da Godard), viene presentato alla prima edizione della Semaine de la critique al Festival di Cannes. Negli anni successivi, Rozier si guadagna la fama di “enfant terrible” e incontra molte difficoltà nel dirigere altri film. Dopo vari tentativi, nel 1969 riesce a realizzare Du Côté d’Orouët, che arriva in sala solo nel 1973 e lancia Bernard Ménez come attore comico. Nel 1976 gira Les Naufragés de l’île de la Tortue (1976), commedia sostenuta da Pierre Richard all’epoca all’apice della fama, ma all’uscita si rivela un fallimento. Torna a lavorare con Ménez nel 1986 con la commedia Maine Océan che gli vale il premio Jean Vigo, mentre nel 2001 realizza l’ultimo lungometraggio, Fifi Martingale, altra commedia di ambiente teatrale, che viene presentato alla Mostra di Venezia senza ottenere grandi riscontri. Riceve il premio René-Clair nel 1997 e la Carrosse d’or nel 2002. Pur non prolifico, Rozier si è imposto tra i cinefili come voce unica e preziosa, con un’attenzione particolare ai temi del viaggio e agli scenari marittimi e attori popolari, la contaminazione tra documentario e fiction e l’improvvisazione.

7. Terence Davies (Liverpool, 10 novembre 1945 – Mistley, 7 ottobre 2023) Cresce a Liverpool, in una famiglia della classe operaia. Dopo aver lavorato dieci anni come ragioniere, nel 1971 entra nella Coventry School of Drama, dove scrive e dirige il suo primo cortometraggio, Children. Nel 1988 scrive e dirige il suo primo lungometraggio, Voci lontane… sempre presenti, vincitore del Pardo d’oro al Festival di Locarno e del premio FIPRESCI al 41º Festival di Cannes, nella Quinzaine des Réalisateurs. Seguono Il lungo giorno finisce (1992), Serenata alla luna (1995), entrambi in concorso al Festival di Cannes, e La casa della gioia (2000), tratto da un romanzo di Edith Wharton. Passano otto anni prima che Davies presenti la sua successiva opera cinematografica, Of Time and the City, documentario sulla sua città natale, presentato come proiezione speciale nella selezione ufficiale del Festival di Cannes 2008. Nel 2011 realizza Il profondo mare azzurro, trasposizione dell’omonima opera teatrale di Terence Rattigan.

6, Paul Vecchiali (Ajaccio, 28 aprile 1930 – Gassin, 18 gennaio 2023) I suoi primi film ebbero carattere sperimentale e si rifacevano alla cinematografia dei primi anni Trenta. Divenne noto con le pellicole Una donna per tutti e Once More – Ancora. In genere le sue pellicole sono produzioni a basso costo. Esemplare riguardo a ciò Trous de memoire, girato in un giorno e che ha in sé la durata densa e coincisa dei ricordi. Il film, del 1984, torna sugli schermi francesi nell’estate del 2023 qualche mese dopo la morte del regista. Si basa sui dialoghi improvvisati dei due protagonisti, Françoise Lebrun e Paul Vecchiali, che si ritrovano dopo una lunga separazione, su invito di Paul accettato da Françoise, col pretesto si ripristinare insieme memorie perdute. Bonjour, la langue è stata la rivelazione della 76° edizione del festival svizzero di Locarno, film definito testamentario e sconvolgente da Thierry Méranger su Cahiers du cinéma.

5. Hugh Hudson  (Londra, 25 agosto 1936 – Londra, 10 febbraio 2023) Dopo aver lavorato alla realizzazione di alcuni documentari (uno su tutti, Fangio del 1975) e di apprezzati spot pubblicitari, nel 1981 ha diretto la sua prima pellicola: Chariots of fire (Momenti di gloria) gli ha permesso di vincere quattro Premi Oscar ed è considerata il suo capolavoro assoluto (grazie alla riuscita commistione di storia, sport e introspezione). Sulla scia del successo ottenuto, è tornato alla regia con Greystoke (1984, Greystoke – La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie) e Revolution (1985), prima di dirigere due film presentati a Cannes (Lost Angels nel 1989 e Sognando l’Africa nel 2000). Nel 2011 è tornato ai documentari con Rupture – A matter of life or death.

4. Otar Ioseliani (Tbilisi, 2 febbraio 1934 – Tbilisi, 17 dicembre 2023) Malinconico analista dei comportamenti umani, considerati alla stregua di fenomeni naturali e quindi descritti con precisione musicale e pianoforte al conservatorio di Tbilisi dal 1944 al 1953. Trasferitosi a Mosca, si iscrisse alla facoltà di matematica. Studiò Matematica, che frequentò per due anni (1953-1955), per poi abbandonarla e iscriversi al VGIK, dove ebbe come insegnante Aleksandr P. Dovženko. Diplomatosi nel 1961, realizzò il suo primo mediometraggio, Aprel′ (1962, Aprile), che non ottenne l’autorizzazione a circolare. Con i film seguenti ‒ Listopad (1968, La caduta delle foglie), Žil pevčij drozd (1971; C’era una volta un merlo canterino), Pastoral′ (1976, Pastorale), i problemi con la censura sovietica si aggravarono al punto da costringerlo a cercare finanziamenti in Francia. Iniziò allora una nuova fase creativa, con Les favoris de la Lune (1984; I favoriti della Luna), Et la lumière fut (1989; Un incendio visto da lontano), ambedue Premi speciali della giuria alla Mostra del cinema di Venezia, La chasse aux papillons (1992; Caccia alle farfalle), Brigands ‒ Chapitre VII (1996; Briganti), grazie al quale ha ottenuto per la terza volta il Gran premio speciale della giuria a Venezia, Adieu, plancher des vaches (1999; Addio terraferma) e Lundi matin (2002; Lunedì mattina), Orso d’argento per la regia al festival di Berlino, è anche un raffinato documentarista televisivo (Cugun, 1965; Euzkadi, 1982; Un petit monastère en Toscane, 1988; Seule, Géorgie, 1994). I suoi film rifiutano apertamente la trama romanzesca e la psicologia, per interessarsi unicamente alle azioni di personaggi osservati a distanza da una macchina da presa in costante movimento e sempre pronta ad abbandonarli per seguire un altro evento, e un altro ancora.

3. Michel Deville (Boulogne-Billancourt, 13 aprile 1931 – Boulogne-Billancourt, 16 febbraio 2023) Ha rivisitato i più diversi generi cinematografici con gusto raffinato e leggero, con toni soffusi ed eleganti, anche se con uno stile più classico di quello dei contemporanei registi della Nouvelle vague. Da commedie sentimentali come Adorable menteuse (1962; Le bugie nel mio letto) è infatti passato con coerenza stilistica al singolare comico-poliziesco On a volé la Joconde (1965; Il ladro della Gioconda), fino a irriverenti film in costume come Benjamin ou les mémoires d’un puceau (1968; Benjamin, ovvero le avventure di un adolescente). Il suo sguardo sul reale è poi diventato più caustico, trovando espressione compiuta nel giallo psicologico Le dossier 51 (1978; Dossier 51), per la cui sceneggiatura ha vinto un César, e negli accenti cinicamente noir di Eaux profondes (1981; Acque profonde). Nel 1985 ha ottenuto il premio César per la regia di Péril en la demeure (Pericolo nella dimora).

2. Carlos Saura (Huesca, 4 gennaio 1932 – Madrid, 10 febbraio 2023) Provvisto di una profonda cultura pittorica e musicale, esordì con Los golfos (1960), cui seguì La caza (1965), nei quali offriva una rappresentazione della società spagnola realistica e fortemente critica, ricca di ispirazioni letterarie e suggestioni estetiche. In continua lotta con la censura fino alla morte di Franco, con Cria cuervos (1975) inizia ad approfondire l’analisi dei comportamenti di ristretti gruppi familiari, raggiungendo una maturità espressiva e uno stile personale allegorico e visionario in cui si fondono, spesso con esiti originali, echi di Buñuel, Hitchcock e Godard. Tra i suoi altri lavori: El jardin de las delicias (1970); Elisa, vida mia (1976); Carmen (Carmen story, 1983); Eldorado (1988); Flamenco (1995); Taxi (1996); El séptimo día (2004); Iberia (2005); Fados (2007); Io, Don Giovanni (2009); i documentari Flamenco, Flamenco (2010), Zonda: folclore argentino (2015) e Renzo Piano, an architect for Santander (2018).

1.William Friedkin (Chicago, 29 agosto 1935 – Los Angeles, 7 agosto 2023) Le sue opere si rivelano caratterizzate da una notevole forza narrativa, espressa attraverso una messinscena carica di tensione visiva e incline all’immaginifico, mentre costante risulta l’esigenza del regista di affrontare con particolare senso etico la riflessione sul sottile confine che separa il bene dal male e l’indagine sul malessere e l’inquietudine esistenziali. Nel suo cinema l’attenzione a tematiche forti della vita sociale si combina infatti con l’impegno nel narrare storie che mettono in risalto il lato ambiguo e oscuro dell’animo umano, distaccandosi in maniera sostanziale dalle convenzioni narrative imperanti negli studios mediante una capacità di stravolgere dall’interno i generi e i canoni hollywoodiani, rendendoli più sfaccettati e complessi. Nel 1972 ha vinto sia l’Oscar sia il Golden Globe per la regia con The French connection (1971; Il braccio violento della legge) e due anni dopo il Golden Globe per la regia di The exorcist (1973; L’esorcista). Giovanissimo, venne assunto da un’emittente televisiva che, ben presto, gli affidò la regia di programmi e di documentari. L’approccio al cinema fu mediato da questo tipo di esperienza: il suo primo film, Good times (1967), è la messinscena delle vicissitudini artistiche di un duo canoro dell’epoca, Sonny e Cher che interpretano sé stessi. Se Good times con i suoi sketch e lo scarno, se non assente, sviluppo narrativo rivela la confidenza del regista con il linguaggio televisivo, con The night they raided Minsky’s (1968; Quella notte inventarono lo spogliarello), The birthday party (1968; Festa di compleanno), e The boys in the band (1970; Festa per il compleanno del caro amico Harold), volle invece confrontarsi con il mondo del teatro: nel primo caso in quanto luogo, set sul quale si svolge la storia, negli altri due in quanto testo drammaturgico di riferimento. In particolare il regista si rivela interessato al teatro soprattutto in quanto rivelazione di una realtà straniante, contesto in cui risultano amplificate storie estreme, claustrofobicamente circoscritte in uno spazio delimitato. Al kafkiano The birthday party, tratto da un dramma di Harold Pinter, il quale collaborò anche alla sceneggiatura, fece seguito The boys in the band, che mette in scena un mondo ambiguo, abitato da personaggi che con enormi difficoltà riescono a costruire improbabili equilibri: il gruppo di omosessuali che si riunisce per i festeggiamenti viene costretto a mettere in gioco i propri sentimenti contraddittori, cosicché esplode infine con chiarezza la tendenza all’autodistruzione che pervade gran parte della storia. Il successo arrivò con il quinto lungometraggio, The French connection, opera in cui si concretizza la ricerca stilistica dei quattro film precedenti, mentre l’esperienza documentaristica si sostanzia attraverso la descrizione di tipologie umane paradossali; in particolare, i tutori della legge appaiono sopraffatti dalla necessità di garantire un ordine e, d’altra parte, non riescono a definire quelle che dovrebbero essere le procedure legali e morali del proprio agire. The exorcist, opera della definitiva consacrazione da parte del pubblico, appare muoversi sulla stessa linea: ancora una volta i personaggi sono attanagliati dal dubbio e dall’angoscia su quale sia il percorso che porta al bene o che, almeno, lo definisce. Il film fece acquisire all’horror uno spessore mai avuto in precedenza, e penetrò nell’immaginario di quegli anni grazie alla commistione degli elementi simbolici esibiti: una bambina indemoniata, una madre con problemi di relazione, un padre assente, un sacerdote pieno di dubbi e perplessità. Successivamente il cinema di F. ha alternato film altamente drammatici, come Sorcerer (1977; Il salario della paura), remake di Le salaire de la peur (1953) di Henri-Georges Clouzot, a storie più leggere come The brink’s job (1978; Pollice da scasso), senza mai abbandonare l’attenzione partecipe verso realtà e psicologie problematiche e oscure. I generi poliziesco e thriller sono tornati prepotentemente nel suo cinema con Cruising (1980) e, soprattutto, To live and die in L.A. (1985; Vivere e morire a Los Angeles). Si tratta di opere che testimoniano la capacità del regista di raccontare le oscure pulsioni che agitano l’animo umano, senza concedere nulla a facili effetti ma scavando in profondità tra le motivazioni drammatiche. Nel cinema di F. si trovano riflesse le posizioni non solo estetiche ma anche morali del regista, prova ne sia il montaggio e rimontaggio del suo Rampage (1987; Assassino senza colpa? o Ritratto di un serial killer). Nella prima versione F. ha espresso la sua posizione contro la pena di morte, ma successivamente ha scelto di rendere più problematica la tesi espressa dal film. Nel 1990 ha diretto The guardian (1990; L’albero del male), tratto da un romanzo di D. Greenburg, in cui è riscito a creare una forte tensione attraverso la materializzazione di riti maligni, in una dimensione sempre sospesa tra l’alterazione della realtà e l’incubo. Il successivo Blue chips (1994; Basta vincere), scritto da Ron Shelton, è apparso anomalo rispetto al suo consueto cinema. In realtà, la vicenda dell’allenatore di una fallimentare squadra di basket che ingaggia, contro il regolamento, tre campioni ‘fuori serie’, è un’altra amara parabola discendente che mette continuamente in relazione l’uomo con i propri conflitti interiori. Mentre al successivo Jade (1995) F. ha impresso abilmente il ritmo concitato tipico dei suoi polizieschi, attraverso una struttura simile nel montaggio a To live and die in L.A. (la sequenza dell’inseguimento in automobile) che lascia i personaggi (un aspirante procuratore, la sua ex donna accusata di omicidio) in uno stato di continua ambiguità. Dopo Twelve angry men (1997; La parola ai giurati), remake dell’omonimo film di Sidney Lumet del 1957, ha realizzato Rules of engagement (2000; Regole d’onore), in cui ha coniugato, con estrema maestria, frammenti di film bellico (le sequenze del Vietnam) e di film d’azione (l’attacco alla folla nello Yemen) con la struttura di quello processuale.

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