UN PROTAGONISTA DI LUCE RIFLESSA (La scomparsa di Titta Benzi)

di Gianfranco Angelucci

Mettiamo per un momento da parte l’amico Titta, a cui volevamo tutti bene. Capisco il bisogno di retorica che accompagna questi momenti di lutto, l’esibizione di fazzoletti tirati fuori vistosamente dalla tasca. Titta merita in pieno la nostra commozione, come persona e come simbolo di una città che non c’è più.

Ma riavvolgiamo a ciglio asciutto la pellicola. L’avv. Luigi Benzi sarebbe oggi un puro Carneade se non fosse esistito Federico Fellini; la sua notorietà cittadina vive di luce riflessa per essere stato amico d’infanzia del regista. Stimato professionista – era un ottimo difensore di cause penali e patrocinava perfino in Cassazione – se oggi nondimeno ne parliamo, se ci sembra come ha scritto a caldo Davide Brullo che d’un tratto sia venuto meno il Ponte di Tiberio, cioè che la cittadinanza si sente orbata all’improvviso di un monumento locale, è solo perché un artista eccezionale si è ispirato a lui e alla sua famiglia. Per raccontare la Rimini degli anni Trenta, “e’ Borg”, Fellini ha messo in scena una comic strip dei personaggi che la abitavano, una pagina colorata del Corriere dei Piccoli. Tra i protagonisti spiccava il Grosso, con il padre capomastro, la madre dolce e nevrastenica, lo zio Pataca, il nonno scorreggione che allungava le mani al passaggio della servetta docilmente risentita: “Ma che cos’è il mio culo, la pila dell’acqua santa?!”

Per raccontare la propria famiglia, la famiglia italiana, Federico aveva scelto la casa di Titta, un espediente con cui prendere le distanze dalla vischiosità dei propri ricordi. La ricostruzione della Rimini degli anni del fascismo ha avuto come esito un capolavoro che ha incantato il mondo. Qualche malevolo annotò allora che Fellini aveva realizzato un film provinciale; l’autore replicò sornione in una intervista radiofonica: “Non me ne sono accorto. Evidentemente la provincia di Rimini deve essersi molto estesa se il film piace tanto in America, in Australia, in Sud Africa, in Giappone”.

In seguito alla diffusione di Amarcord in ogni continente, un’indagine demoscopica rivelò che il Grand Hotel era l’albergo internazionalmente più conosciuto dopo il Plaza di New York. Un’incalcolabile ricaduta di immagine sull’intera città che non solo non è stata capace di raccogliere un’eredità così smisurata, ma che si è adoperata quanto più ha potuto per distruggerla. Allora poche lacrimucce di convenienza e vediamo di sfruttare insieme l’occasione per capirci meglio.

Nella nostra vita di animali simbolici, gli unici del creato, non esistono paesaggi né persone memorabili, ma solo artisti che riescono a renderli tali nell’immaginazione collettiva. La Monument Valley non sarebbe altro che un sito pittoresco degli Stati Uniti se John Ford non vi avesse ambientato il film “Ombre Rosse”, trasformandola da sfondo geografico in un sentimento incancellabile. Lo stesso discorso vale per la Via Veneto de “La Dolce Vita”, per la New York di Martin Scorsese e Liza Minnelli, o la “Manhattan” di Woody Allen. Gli esempi non si contano in pittura e in letteratura. Dell’avv. Luigi Benzi ancora bambino, Fellini ha tratteggiato la ‘caricatura’ all’interno di un’opera di valore universale; un’icona simile al Rex, al Grand Hotel, al pavone sulla Fontana di Piazza Cavour, al nevone, alla Gradisca e a Rimini stessa. Benzi ha conquistato per imago l’identità che oggi noi tutti gli riconosciamo.

Siamo lieti, perché era un amico vero, sincero, affettuoso, che a dispetto dell’avvicendarsi delle età rimaneva pur sempre il Grosso, il più gradevole e concreto contatto dell’artista con la propria città. Titta era la prova vivente della stagione mitica dell’adolescenza: la scuola, le prime cotte, gli scherzi, i sogni al cinema Fulgor, i turbamenti sessuali, le struggenti aspirazioni, la fuga. E il ritorno; che in greco si dice ‘nostos’, quel senso di privazione che racchiude al suo interno un dolore diffuso e indefinibile. Al quale alla fine Federico si consegnò, riprendendo la strada di casa quando le condizioni di salute non gli lasciavano più molto margine di vita. E Titta era ancora lì con lui, al suo fianco.

Quanto abbiamo riso tutti e tre in quelle vuote domeniche d’agosto del 1993 all’Ospedale Infermi, quando il pomeriggio arrivava Benzi zoppicando, appoggiato al bastone, e di nuovo la stanza si infiammava di allegria, di chimere, di potenti vibrazioni all’urto delle mascalzonate evocate dai due complici. Titta era stato proprio la spalla di Federico, la sponda infallibile ogni volta che l’amico aveva bisogno di lui. Vedendo rifiorire per magia Federico semi paralizzato nel letto, in quei momenti irripetibili ho voluto bene a Titta come a uno zio fatato, gli ero grato per non aver mai cercato di apparire diverso agli occhi di Fellini, per avergli regalato una memoria immutabile che, una goccia per volta, come una preziosa stalattite aveva depositato quelle secrezioni iridescenti trasformate in opera d’arte.

Solo i riminesi possono illudersi, in buonafede, che Rimini sia “Amarcord”; o che “Amarcord” esista grazie a Titta. Guai cadere in una tale insidia, si perde ogni contorno della realtà, e alla fine si organizzano le notti rosa, Dio li perdoni, intitolate a “Otto e mezzo”. Lasciate Titta in pace, con le sue “Patachedi” che non avrebbero mai visto la luce se non gli fosse stata regalata da Federico quella notorietà posticcia. Seppelliamo Titta con l’abbraccio che merita, invidiandolo per essere stato un fantasma d’amore di Fellini.

Tra i progetti che avevamo abbozzato con Fellini, e mai realizzato, c’era anche “L’avvocato racconta”, un’ipotesi di film ispirato alle esperienza professionali di Luigi Benzi.Nel 1988 con Federico redigemmo un questionario da sottoporre all’amico penalista, ed io fui incaricato di raccogliere al magnetofono le risposte e tradurle in un trattamento. Passammo con Titta alcuni giorni lieti. L’intenzione era quella di ricostruire le controversie che approdano nell’aula di un tribunale di provincia, riferite dall’originale punto di vista di un avvocato bonario, intelligente, scanzonato che difende i suoi imputati, tiene arringhe, si impiglia in imprevisti contrattempi.

C’era persino l’episodio in cui un avvocato, colto da improvviso sommovimento intestinale, si precipita in bagno e per la fretta non si accorge di farla dentro la toga, portandosi poi dietro quel fetore insopportabile. Titta aveva tirato fuori i casi più esilaranti, o patetici, o pruriginosi, e ne era venuto fuori un racconto corposo, umano, divertente. Probabilmente giace ancora tra le carte che giunsero a Rimini dallo studio di Corso d’Italia dopo la scomparsa del Maestro. Malauguratamente non possiedo una copia del testo che Titta mi chiese qualche anno fa, quando era ancora vigile e vigoroso, perché avrebbe avuto desiderio di pubblicarlo sotto forma narrativa. Se le carte riaffiorano sarebbe un bel dono postumo trasformarle in un libretto in suo onore.

 

 

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