Mektoub my love. Visione

Di Gianfranco Angelucci

Si dice che le ragazze quando si trovano a un passo dal matrimonio, proprio sulla soglia, siano particolarmente arrendevoli al peccato. E sappiamo quale. La prospettiva di un giuramento di fedeltà per il resto della vita le rende vulnerabili, maggiormente esposte all’insidia degli uomini; che ne approfittano. Don Giovanni, nell’omonima opera di Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte, induce in tentazione Zerlina che sta per volare a nozze con il bel Masetto; la contadinella tentenna, indugia, ma sta già sdrucciolando nella caduta: “Vorrei e non vorrei/ mi trema un poco il cor”, gorgheggia in un duetto con l’irresistibile seduttore, il quale non le lascia tregua invitandola ad appartarsi con lui: “Là ci darem la mano/ là mi dirai di sì. /Vedi, non è lontano;/ partiam, ben mio, da qui.” E Zerlina alla fine cede invocando: “Presto, non son più forte!”.

Ciascuno può a piacere figurarsi il seguito. Oppure, ancor meglio, può assistervi attraverso gli occhi del ventenne Amin che, all’esterno di una casetta sulla spiaggia sta sbirciando tra le persiane una splendida ragazza travolta dal desiderio nelle braccia di Tony, un piacente guascone senza scrupoli. L’affascinante Ophélie, di cui è segretamente innamorato, è una venere callipigia di rara sensualità che le parole non bastano a descrivere, va abbracciata con lo sguardo. La voluttà che emana, l’abbandono al piacere, il turgore e la sinuosità delle sue forme scrutate tattilmente, centimetro per centimetro, dalla macchina da presa, oscurano per carica erotica qualsiasi film pornografico di noiosa meccanicità. Qui la gioia del corpo femminile riverberato dal godimento ci viene restituita con protratta insistenza, in sapienti, lunghi piani ravvicinati che ci offrono l’illusione di possedere noi stessi quella luminosa esplosione di carnalità; è un lirismo dei sensi talmente suadente da  ricordarci il Cantico dei Cantici o i versi immortali di Saffo e di Ovidio.  Raramente nel cinema la suggestione amorosa è stata ricreata con tanta intensità.

L’autore di questa rovente ouverture, ben sviluppata nel seguito della storia, è il regista franco-tunisino Abdellatif  Kechiche, noto al pubblico almeno per Cous Cous, e La vie d’Adele; il quale ora firma Mektoub, My  Love: Canto uno, molto apprezzato a Venezia dove era in corsa per il Leone d’Oro.

Siamo nel cuore dell’estate 1994; Amin è appena tornato in vacanza da Parigi dove durante l’anno lavora come cameriere per mantenersi agli studi di medicina, ma in realtà per inseguire la sua vocazione di fotografo e cineasta; ed è passato come prima tappa a trovare Ophélie ‘in amicizia’, sapendola in procinto di sposarsi con il suo fidanzato ufficiale al momento  lontano da casa per il servizio militare. Stanco di guardare, Amin bussa alla porta. Gli amanti colti di sorpresa sono costretti a smettere: lui si riveste in fretta squagliandosela dalla porta posteriore, lei si infila sotto la doccia per una rapida sciacquata in cui si espone integralmente all’obiettivo mai sazio della sua avvenenza. Ancora bagnata indossa una maglietta assai scollata sui seni incontenibili e hot pants così stretti e scavati da esaltare con prodigiosa malizia il suo generoso patrimonio. Va ad aprire e tira un respiro di sollievo scorgendo sulla porta il suo amico dolce e sorridente che è passato a farle visita. Baci e abbracci; con lui non ha bisogno di mentire, e mentre il ragazzo la consuma amorevolmente con gli occhi, lei gli offre una birra e con sfumato pudore ammette la propria infedeltà, la spinta istintiva a cambiare, a provare nuove emozioni; un turbamento sessuale comune a tante ragazze prima del fatale passo. Amin, col pensiero sempre rivolto alla fotografia, le parla del proprio desiderio di cimentarsi con riprese di nudo e le chiede di posare per lui: saprà trarre dal suo corpo immagini incomparabili. Lusingata Ophélie non si nega, ma rimane incombente il ritorno del promesso sposo dalla missione di guerra in Medio Oriente, il quale non sarà disposto ad apprezzare certe libertà. Gli chiede anzi di mantenere il segreto assoluto su ciò che ha visto, e che si suppone non rimarrà un episodio isolato in quell’estate bruciante, ad alta carica ormonale, in cui il regista sembra collocare  una vicenda di sapore privato; una sorta di educazione sentimentale di cui, come ci avverte il titolo, siamo soltanto al primo capitolo. E ben vengano i successivi, li attenderemo con impazienza.

Sète, nel sud della Francia, in Linguadoca, è la classica località di mare che con il solleone si trasforma in una festa mobile inesausta e senza freni. Il film è ampio e corale, ma la sua durata inconsueta, di tre ore esatte, risponde a una dilatazione necessaria; ci permette di calarci nell’esistenza quotidiana di un nucleo familiare allargato, cugini, amici, conoscenti, di  una enclave tunisina di seconda generazione che nella cittadina gestisce un ristorante allegro e affollato, crocevia e stimolo di storie che si  intrecciano in un turbinio survoltato. Complice il mare, il sole, la nudità, la gioventù, la musica, il ballo, la discoteca, il cibo, le feste, la promiscuità, il continuo contatto tra i corpi che sprigionano un’energia contagiosa, un magnetismo irresistibile e creano tutti insieme una sorta di giardino delle delizie.

Ritroviamo Amin in spiaggia in compagnia di Tony, il cugino sciupafemmine, subito adocchiati da due ragazze in vacanza che prendono la tintarella, Charlotte e Cèline. Anche Amin è molto carino, ha un viso pulito, occhi vellutati, modi gentili, e sembra gioire della bellezza che lo avvolge senza alcuna scomposta famelicità, semplicemente incantato da quella irrefrenabile joie de vivre. Bisogna aggiungere, senza voler scandalizzare nessuno, che gran parte del merito va attribuito ai magnifici culi sgrammaticati delle protagoniste, autentica risorsa del film. Le ragazze non sono certo longilinee, hanno le cosce corte e forti, e anche un filo di inevitabile cellulite, ma sono talmente prorompenti nella loro pienezza, che chi non è incline alla mesta anoressia delle indossatrici ritrova in loro il senso più ancestrale della femminilità perduta e rinnegata; sono le degne alunne della venere paleolitica di Willendorf di 26.000 anni or sono, agli albori della civiltà. Fanciulle sorridenti, dai lunghi capelli che sferzano l’aria, dai denti bianchissimi e le labbra dischiuse nel sorriso. Sanno di piacere e sono ben paghe di ostentare le proprie doti nelle evoluzioni lascive delle disco dance, oppure in piedi sui cubi, da sole o in accoppiate licenziose, dimenando ciò che possiedono di meglio (non segue dibattito e non si ammettono contestazioni), e chiarendo a pieno titolo le intenzioni dell’Onnipotente quando decise di modellare Eva da una costola di Adamo.

Sapete cosa cita il regista nell’epigrafe in testa al film? Un versetto del Vangelo e del Corano che recita così: “Dio è la luce di questo mondo”  (Tratto da Giovanni 8,12-20: «Io sono la luce del mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».). Ed è evidente che per Kechiche la materializzazione di quella luce sulla terra è incontrovertibilmente la donna.

Scopriremo presto il senso profondo di questa affermazione che riguarda la vita nel suo più semplice divenire e manifestarsi: la nascita.

La sequenza più inattesa e mistica si svolge nell’ovile di Ophélie. Amin le ha chiesto di poter fotografare la nascita di un agnello; la ragazza lo conduce dentro un recinto in cui alcune pecore stanno per partorire. Dovrà soltanto aspettare e stare attento a quando iniziano le contrazioni. Il ragazzo si aggira tra gli animali, ne accarezza la lana, il muso, si pone in attesa paziente spiando ogni minimo segnale, ed ecco che quasi contemporaneamente due pecore si sgravano depositando a terra il frutto del loro ventre. Sono esseri ancora informi e zuppi di liquido amniotico, ma la madre inizia a ripulirli con la lingua e in pochi istanti i piccoli si sollevano sulle zampe, cercano instabili il capezzolo a cui attaccarsi. Amin assiste intenerito a quel miracolo, gli agnellini gli si accostano, gli leccano le dita della mano che egli protende a sfiorare le loro piccole teste. E’ una lunga sequenza amplificata e silenziosa, che spezza intenzionalmente il ritmo sincopato del film, i dialoghi ininterrotti di gusto molto francese. Ecco, sembra volerci dire Kechiche, a cosa mira la continua ricerca di sesso,  quell’intreccio di amori, di abbracci e accoppiamenti, di prendersi e lasciarsi, di menzogne e  tradimenti, di esaltazioni e di dolore, di appagamenti e delusioni. Un ansito che accomuna gli esseri sulla terra, giovani e meno giovani, madri e figlie, singoli e maritati; anzi lo zio maturo che gestisce il ristorante di famiglia è tra i più scatenati, non fa che correre eccitato dietro alle fringuelle, e smania per tenere sulle ginocchia la giovane turista che amoreggia viziosamente con maschi e femmine e, indulgendo con disinvoltura allo champagne, civetta con il velleitario spasimante assaporando l’ennesima trasgressione.

Davanti ai nostri occhi scivola l’esistenza nel suo aspetto panico, Dioniso il dio che scuote, il dio dell’eccesso, della perdita del controllo e della follia che acceca. Un tripudio, un inno, un osanna. Anche le due ragazze rimorchiate in spiaggia sono creature di luce; Charlotte si concede a Tony che però subito la rimpiazza con un’altra e un’altra, trova scuse, è sfuggente, la fa soffrire. E sarà Amin, che si è sempre limitato a guardare rimanendo ai margini della festa, che accetterà nelle ultime  battute del film di salire a casa di lei per una cenetta a due. La vita rivegeta nel suo immutabile avvicendamento, nutrita dal desiderio che ne costituisce l’alimento primordiale: il motore di ogni creazione, l’amor che muove il sole e l’altre stelle.

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