Mastroianni, il volto del disincanto

di Gianfranco Angelucci

Non conoscevo Alvito, non ne avevo mai neppure sentito parlare, e  mi scuso con i suoi abitanti che incarnano una gentilezza antica, spontanea e sorridente che poco a poco in Italia abbiamo dimenticata. All’esterno della vetrina di una pasticceria, su un tavolinetto, era esposto un plateau di fichi freschi; ho pensato che volessero alludere a qualche leccornia segreta preparata dal piccolo negozio. Sono entrato e mi hanno risposto: “No, sono lì per lei, li assaggi, ne mangi quanti ne vuole, il nostro albero ne fa talmente tanti!” Non ho resistito all’invito e ho assaporato i fichi, turgidi e zuccherini, sotto il sole limpido della mattina, accarezzato dall’aria sottile della mezza montagna. “Lei è la pasticcera?” Ho domandato rientrando alla ragazza che me li aveva offerti, bionda, avvenente, soave. “No io studio all’università, ma d’estate do una mano in negozio. A me piace fare i torroni, se potessi farei soltanto torroni”. Mi ha risposto con gli occhi accesi di entusiasmo. Sembrava uscita da un libro illustrato, o da quella pagina di Isabel Allende in cui due sorelle che passano tutto il giorno a impastare dolci, portavano con sé un inequivocabile profumo di vaniglia.

Apprendo che la pasticceria è specializzata in torroni di pasta di mandorle che per Natale vengono spediti in tutto il mondo, pacchi dono da far invidia a Santa Klaus. Alvito delle magie. In questo scrigno della Ciociaria, a 500 metri di altezza, che prende forse il nome da mons albetum, monte uliveto, ha luogo ogni anno il Festival delle Storie, ideato, diretto e animato da Vittorio Macioce, responsabile dei servizi culturali di Il Giornale. Ogni estate, tra fine agosto e inizio settembre, il giornalista regala al suo paese d’origine questa manifestazione fatata a cui accorrono migliaia di persone e giovani artisti. Per questa settima edizione era prevista una serata intitolata  Mastroianni, il volto del disincanto, in omaggio a Federico Fellini e al suo attore prediletto, ‘alterego’, complice, amico per la pelle, Marcello Mastroianni, del quale ricorre il ventennale dalla scomparsa. Lungo la scalinata che costeggia l’antico lavatoio e che si presta ad accogliere il pubblico, foltissimo, come un teatro di pietra, è stata raccontata la ‘storia’ parallela dei due cineasti attraverso sequenze di film leggendari che ancora incantano il mondo intero. Ma sono stati presentati anche altri materiali inediti, assolutamente di prima mano, tra cui l’intervista da me realizzata con Mastroianni nel 1985 a Parigi, al teatro Montparnasse dove l’attore italiano interpretava in francese Tchin Tchin di François Billedoux, opera boulevardier di travolgente successo con la regia di Peter Brook. Era l’epoca in cui Marcello, innamorato di Catherine Deneuve, voleva stare vicino alla figlia Chiara nata da poco, e aveva lasciato temporaneamente l’Italia.

I temi della serata erano golosi, di presa certa e immediata, a cominciare da “la fedeltà nell’infedeltà”, una specie di ossimoro esistenziale che aveva accomunato i due amici in un’immagine quasi speculare: entrambi sposati con un’attrice (Giulietta Masina per Federico, Flora Carabella per Marcello) a cui erano rimasti indissolubilmente legati fino alla morte, pur avendo avuto una vita erotico sentimentale piuttosto movimentata. Mastroianni aveva rinunciato all’amore travolgente con la diva hollywoodiana Faye Duneway la quale, gelosa, gli aveva dato l’aut aut: o me o tua moglie. Non sapendo, da americana, che un maschio latino non andrebbe mai messo di fronte a un tale dilemma. Attraverso quali funambolismi, quali alibi, o quali verità impossibili (“la felicità – diceva Fellini – consiste nel poter dire la verità senza mai far soffrire nessuno”), i due amici erano riusciti a condurre in porto imprese tanto ardue? Il filo comune può essere rintracciato nelle opere di Fellini – La dolce vita, Otto e mezzo, La città delle donne, Ginger e Fred, Intervista – nelle quali l’autore per raccontare se stesso spudoratamente, senza riguardi, aveva preso in prestito la faccia, la figura, il garbo, la bravura, di Marcello; anche forse con qualche scambio di esperienze, in una con-fusione creativa  capace di generare capolavori insuperabili, e persino di indicare al pubblico una via  d’uscita, forse, alle inevitabili contraddizioni dell’essere umano; immaginando che ci possa essere una dimensione, per quanto utopica, in cui alle ragioni della lacerazione e del dolore si sostituisca l’armonia della redenzione. “La vita è una festa, viviamola insieme!” Questa frase sussurrata da Guido, il protagonista di Otto e mezzo, alla moglie Luisa (Anouk Aimée) è diventata un’asserzione, ripetuta di bocca in bocca, per anni, in ogni contrada della Terra. Una invocazione alla riconciliazione a cui segue, nel film, l’invenzione di quel carosello finale in cui tutti gli interpreti della storia (della vita?) sfilano in passerella sulle note dell’indimenticabile marcetta di Nino Rota diventata l’inno stesso del cinema.

Trascorsa da un pezzo la mezzanotte, la platea era ancora immersa nella suggestione del racconto con una partecipazione empatica densissima, quasi palpabile, come accade quando per magia veniamo imprigionati dentro una bolla da cui non vorremmo più evadere. Sono stati rievocati aneddoti, rivelati segreti, anche di eccitante natura cinematografica, che in pochissimi conoscono, e che i relatori al mio fianco, lo stesso Macioce e Mauro Minervino, brillante antropologo eterodosso, hanno contribuito ad arricchire e rilanciare in una sorta di jam session della parola e dei ricordi.

Alvito dunque terra di fate e sortilegi! Neppure 3000 abitanti, incastonata nella Valle di Comino all’interno del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, con in vetta all’abitato un castello militare diroccato ma possente, che domina la valle e racconta un passato di ricchezza e di lustro. Molti edifici sulla via principale sono palazzi gentilizi. L’albergatore che mi ospita è un rampollo di nobile famiglia, Lorenzo Sipari, che mi accoglie nella residenza dei suoi avi. L’ampia e comoda scala di accesso, con guida rossa centrale, conduce al piano nobile oggi trasformato in B&B (Bed and Breakfast, che cacofonia!) tra arazzi, specchiere, divani di rappresentanza, lampadari di cristallo, mobili in stile. Lungo il corridoio su cui si aprono le stanze (eleganti e spaziose suite) si  ammirano fotografie, diplomi, scritti e ricordi del passaggio di Benedetto Croce, mentre le librerie a vetro ne espongono gran parte delle opere in preziosissime stampe d’epoca appartenenti all’archivio vincolato: il filosofo di Pescasseroli era infatti imparentato ai Sipari per il ramo materno, e aveva soggiornato volentieri in questa residenza dei cugini. Lorenzo, ultimo degli eredi, nato  il 10 ottobre, incredibilmente nello stesso giorno del nonno e del bisnonno, ha accettato quasi per destino di essere il depositario della memoria di famiglia ed è diventato uno storico, con numerose pubblicazioni alle spalle nonostante la giovane età. Ha lasciato Roma per trasferirsi definitivamente ad Alvito a curare il palazzo Sipari rimasto chiuso per vent’anni, riportarne alla luce i tesori, la storia, il profumo di un tempo. E simile a un nume tutelare lieve e presentissimo, coinvolge con signorile discrezione visitatori e ospiti.

Un altro bagliore della nostra bell’Italia che diventa davvero irresistibile quando indossa con tanta grazia  la cultura che le appartiene.

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