La poesia di un colibrì (Marilyn Monroe a 50 anni dalla morte) Materiale in coda

di Gianfranco Angelucci

Per i 50 anni dalla scomparsa di Marilyn Monroe sono corso a rileggermi la cronaca scritta da Truman Capote, il ritratto più aderente e palpitante che sia mai stato composto sull’attrice e sul mito. Appartiene alla raccolta “Musica per camaleonti” ed è intitolato “Una bellissima bambina”. Prende l’avvio dal funerale, a New York, di Constance Collier, sublime attrice shakespeariana già insegnante di recitazione di Catherine Hepburn e poi di Audrey Hepburn, la quale per amicizia con Capote aveva accettato di occuparsi anche di Marilyn: “Una bellissima bambina. Le qualità che ha – questa presenza, questa luminosità, questi sprazzi di intelligenza – non potrebbero mai emergere in teatro. Sono così fragili e sottili che solo l’obiettivo può coglierle. Come il volo di un colibrì: solo una cinepresa può fissarne la poesia.” Concludendo con un’inquietante preveggenza da pitonessa: “Chissà perché, non credo che arriverà molto in là con gli anni. Assurdo, ma ho la sensazione che morirà giovane. Spero, prego ardentemente, che viva abbastanza da dare libero sfogo a quello strano, incantevole talento che smania dentro di lei come uno spirito imprigionato.”

Il tratteggio che Capote compie di Marilyn è affidato a un dialogo serrato, in cui sembra di poter riudire persino l’intonazione di voce dell’attrice. La diva arriva al funerale con una mise che sarebbe stata “acconcia per la badessa di un convento in udienza privata al Papa, i capelli completamente nascosti in una sciarpa di chiffon nero”. Tuttavia “una badessa, questo è certo, non avrebbe calzato quelle scarpe nere a tacco alto, vagamente erotiche, né i gufeschi occhiali da sole che davano risalto al pallore vanigliato delle sua carnagione freschissima.” Un rapido colpo di pennello e la diva ci si materializza davanti agli occhi: “Con i capelli nascosti, la pelle senza traccia di cosmetici, la Monroe dimostrava dodici anni: una vergine pubescente, appena accolta in un orfanotrofio, che piange sulla sua malasorte.” Finito il funerale i due si rifugiano in incognito in un bar della Terza Strada a bere champagne MUMM, e naturalmente le confidenze si sprecano, viene fuori di tutto. Parlano della Regina Elisabetta e del Principe Filippo. Ed ecco Marilyn: “Quello. Oh, sì. E’ carino. Ha l’aria di avere un bel cazzo. Ti ho mai raccontato di quella volta che ho visto Errol Flynn sfoderare l’uccello e suonarci il pianoforte? Oh, beh, è stato un secolo fa, io ero agli inizi, come fotomodella, e sono andata a questa festa – un mezzo mortorio – dove c’era Errol Flynn che, tutto compiaciuto di se stesso, tira fuori l’uccello e ha suonato un pezzo al pianoforte. Gran botte sui tasti. Ha eseguito You Are My Sunshine. Figurarsi che cazzo di sonata!” Più oltre la diva confessa: “Mi piacerebbe portare degli anelli, ma non voglio far notare le mani. Sono troppo tozze. Anche Elisabeth Taylor ha le mani grassocce. Ma con quegli occhi, chi ci fa caso alle mani?”

Mi sono ricordato di quando ero a Los Angeles. Sul marciapiede dell’ Hollywood Boulevard sono incastonate decine e decine di stelle di ottone, ciascuna con il proprio nome e tutte ugualmente brillanti per lo scalpiccio di milioni di passi. Un firmamento, una Via Lattea di sogni. Anche al Chinese Theater, sui lastroni rettangolari davanti all’ingresso, campeggiano le impronte e le firme dei personaggi leggendari dello star system; ma le donne più vagheggiate del mondo lasciano orme da nane: Rita Hayworth, Olivia de Havilland, Elizabeth Taylor, la stessa Marilyn Monroe, dovevano essere delle veneri pigmee. Marilyn dispone dell’unico riquadro color cotto tra tutti gli altri che sono grigi; la sua l’impronta è la più fotografata, la più ricercata, la più contemplata: mille piedi di donne in pellegrinaggio vi si posano trepidanti, come brutte sorellastre decise a calzare la scarpetta di Cenerentola. Ognuna desidererebbe avere quelle misure e ritrovarsi per prodigio nella favola intramontabile che ha trasformato una piccola starlet biondo platino di nome Norma Jean Baker Mortenson nel sogno sessuale di ogni maschio del pianeta, in una santa patrona dell’industria cinematografica, madonna consacrata di una religione profana che ha più adepti di quelle sacre. A Hollywood e in genere a Los Angeles ogni angolo, ogni negozio, ogni parete, nasconde una nicchia di devozione riservata a lei, alla sua immagine. Marilyn è dovunque, a raccogliere i voti e le preghiere di chi, volendo aspirare al successo, ha bisogno di protezione e di consiglio, o di chi, pur non pensando mai di fare l’attrice, come in genere non si pensa di farsi santi, invoca la sua benedizione per disporre almeno di un’esigua porzione della sua grazia, e con quella imbrigliare il cuore dell’uomo che ama.

Nel ritratto di Capote, lei indaga con lo scrittore: “Se mai qualcuno un domani ti domandasse come ero io, come era veramente Marilyn Monroe… ebbene cosa risponderesti?” Capote magistralmente indugia sull’attimo fuggente: La luce andava scemando. Lei sembrava dissolversi con essa, fondersi col cielo e le nubi, svanire al di là dell’orizzonte. Avrei allora voluto alzare la voce per sovrastare le grida dei gabbiani. “Direi…” “Non ti sento.” “Direi che eri una bellissima bambina.”

 

 

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