La dolce vita. Punto d’incontro tra storia e arte.

Tratto da L’ITALIA DI FELLINI di Giovanni Scolari ed. Sabinae

L’esplosione della vita notturna romana coincide con la morte di Papa Pacelli, avvenuta il 9 ottobre 1958, che, si dice, avesse sempre osteggiato questo tipo di manifestazioni. Coincide anche con il boom dei giornali scandalistici che mitizzano via Veneto. Lo spettacolo di quelle sere si insinua nella mente di Fellini e conquista facilmente i suoi collaboratori alla sceneggiatura: Flaiano, che frequenta da tempo la via, e Pinelli. L’idea si innesta su Moraldo in città, un copione mai realizzato. L’atmosfera di via Veneto determina un cambiamento in Fellini che, come scrive Flaiano nel giugno del 1958, sull’idea base sovrappone l’intenzione di “dare un ritratto di questa società dei caffè che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere. [..] Il film avrà per titolo La dolce vita e non ne abbiamo scritto ancora una riga.”

Dopo il consueto walzer dei produttori, il film è tra le mani di Amato le cui finanze non bastano a coprire le spese che continuano a lievitare. A questo punto entra in gioco Angelo Rizzoli.

La composizione del cast è faticosa. Dopo aver scelto come protagonista Mastroianni, preferito a Paul Newman, Fellini si sbizzarrisce nella ricerca dei volti giusti. Vorrebbe Elio Vittorini nella parte di Steiner, ma non riesce a convincerlo. L’ultima importante scelta è quella di Anita Ekberg, la bellissima attrice svedese che rappresentava agli occhi del regista il simbolo della donna. L’attrice era da tempo protagonista delle cronache rosa italiane.

Le riprese del film diventano meta continua di visitatori, di curiosi, fino ad entrare nella vita mondana della città. L’atmosfera festaiola raggiunge il culmine durante le riprese del bagno della Ekberg nella fontana di Trevi. Per girare quella scena furono necessarie otto o nove notti durante le quali i proprietari delle case che davano sulla piazza affittarono ai curiosi balconi, finestre e terrazzi. L’entusiasmo per l’attrice svedese è tale che, durante un esterno a Tor di Schiavi, scoppiano tumulti quando la folla accorsa scopre che non prende parte alle riprese.

Dopo aver visionato l’immenso materiale girato Fellini appronta una copia campione che viene vista solo dai due produttori: Rizzoli e Amato. I due sconvolti sembra che abbiano telefonato nel corso della notte al presidente della Titanus, Lombardo, per cercare di svendere il film.

Si giunge così all’anteprima romana presso il cinema Fiamma. Alla conclusione venti secondi di applausi e qualche isolato fischio. L’attenzione passa a Milano dove la serata di presentazione è fissata per il 5 febbraio 1960 al cinema Capitol. Sul film, intanto, pende la spada di damocle della censura, particolarmente attiva in quell’anno come dimostrano i brutali tagli apportati a Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Tutto, però, fila liscio in quanto ancora una volta l’intervento di padre Arpa ha consentito di superare i veti. La pellicola viene mostrata al cardinale Siri che concede il suo benestare, il gesuita invia allora una lettera a Gronchi in cui si riporta il giudizio di Siri, subito dopo la censura dà il suo permesso classificando l’opera sotto la dicitura “adulti con riserva“.

La prima milanese è un disastro. Il pubblico, prevenuto dalla campagna scandalistica montata precedentemente, si agita e rumoreggia. Alla fine solo qualche applauso convinto e molte grida di protesta. Qualcuno apostrofa Mastroianni come comunista, una persona sputa addosso a Fellini.

La stampa segue passo passo le vicende del film. Il 5 febbraio, vigilia dell’uscita dell’opera nelle sale, molti quotidiani commentano La dolce vita grazie alla visione riservata per i critici avvenuta il giorno prima. I commenti sono tiepidi ma sufficientemente positivi. Tommaso Chiaretti è convinto che il crepuscolarismo è la vera strada poetica di Fellini che “altrove aveva imboccato male, dalla parte del misticismo, cioè, dalla parte cieca.” Ma anche al critico del Paese appare evidente che ci si trova di fronte ad “una delle opere più nuove e, in un certo senso, rivoluzionarie del cinema mondiale degli ultimi anni“. L’eccezionalità dell’avvenimento è colto da tutti i cronisti. Su La Nazione del 6 febbraio si dice, riferendosi al neologismo derivato da I vitelloni, che “l’espressione La dolce vita ha avuto un’accoglienza ancora più immediata: la si usa oralmente e per iscritto già da mesi, e il film di Fellini non è uscito che ieri.” Il giornalista la definisce “una delle tre o quattro opere più forti del cinema italiano.”

Comunque l’anteprima milanese ha confermato le pessimistiche previsioni per l’esito del film, il più costoso mai prodotto in Italia. Il 6 febbraio Fellini si reca a pranzo senza farsi illusioni per gli incassi della giornata. Quando fa ritorno al Capitol si trova davanti ad uno spettacolo imprevedibile. La folla ha sfondato le porte del cinema, tutti vogliono vedere il film prima che venga sequestrato e quelli che non riescono ad entrare protestano calorosamente. È l’inizio di un trionfo che porterà La dolce vita ad essere il campione d’incassi del 1960 con oltre 2 miliardi di ricavato, una cifra che, rivalutata al 1993, supera i 58 milioni di €.

Le reazioni non si fanno attendere. La prima interrogazione parlamentare è del 9 febbraio da parte di un deputato missino che stigmatizza “l’offesa palese alle virtù e alla probità della popolazione romana e la banale canzonatura dell’alta missione di Roma quale centro del cattolicesimo e di antiche civiltà.” A questa interrogazione ne fanno seguito altre. Lo stesso giorno ha inizio la campagna denigratoria de L’Osservatore Romano che in un corsivo senza firma (opera forse del suo direttore il conte Della Torre) intitolato “Basta!” afferma che: “il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella sua psicologia [..] è incentivo al male, al delitto, al vizio; ne è propaganda“. L’articolo prosegue con un violento attacco alla critica che ha lodato il film e conclude con un appello, richiamando al loro dovere i pubblici poteri “cui compete e la sanità del costume, e il rispetto al buon nome di un popolo civile“.

La reazione del quotidiano vaticano è l’espressione dell’intervento della parte più retriva del mondo ecclesiastico che si esprime in varie circostanze. Dopo l’intervento di padre Arpa presso il cardinale Siri, di cui abbiamo detto, sembrava che tutto fosse chiarito. Il film dalla categoria “vietato per tutti” era passato in quella “adulti con riserva“; inoltre era stato proiettato presso il centro culturale S. Fedele, gestito dai gesuiti, dove era stato accolto con grande interesse; Arpa era, infine, riuscito a fissare un incontro tra Fellini e il cardinale Montini, il futuro Paolo VI. Il 9 febbraio esce l’articolo già citato: è il segnale che la cosiddetta “nobiltà nera” del Vaticano, la componente più reazionaria del mondo ecclesiastico, ha ripreso il controllo della situazione. Immediatamente la stampa cattolica si adegua. Il CCC riporta il film nella categoria delle pellicole “escluse per tutti“. L’intervento diretto della Segreteria di Stato Vaticana ha, dunque, probabilmente costretto Siri a togliere la sua approvazione all’opera di Fellini. Anche Montini annulla l’incontro previsto con il regista romagnolo. Le polemiche non sono ancora finite. Un lettore del foglio vaticano invita le autorità competenti a incriminare Anita Ekberg per uso abusivo dell’abito talare a causa di un costume di scena.

L’enorme successo della pellicola spinge gli ambienti ecclesiastici a rincarare la dose contro Fellini e chi all’interno della Chiesa osa appoggiarlo. Se le proteste di alcuni parlamentari non ottengono risultati in quanto il governo, per bocca del sottosegretario Magrì, non prende provvedimenti; durissima è la repressione nel mondo religioso. L’Osservatore Romano affida gli attacchi alla pellicola a otto articoli che ribattezzanoil film La Schifosa vita. In uno di questi, pubblicato il 10 marzo, Cinecittà diventa la città dantesca di Dite e si spiega come la vera arte “è chiara, schietta, non induce in equivoco […] è l’arte su cui non s’affatica, non si contorce la distinzione tra l’artista che indulge al male, sino a compiacersene si da incitare altrui al delitto, e l’artista che invece vi insinua tutto il proprio sdegno per sdegnare gli altri.” Concordemente il resto della stampa cattolica ammonisce i fedeli a non vedere la pellicola seguendo i precetti religiosi.

Questi articoli aggrediscono in modo particolare due gesuiti: padre Angelo Arpa e padre Nazareno Taddei. A padre Arpa, vittima degli strali dell’Osservatore Romano, viene imposto un anno di silenzio. La vicenda di padre Taddei è significativa. Taddei, critico molto apprezzato, è uno dei responsabili del Centro San Fedele e del periodico, ad esso collegato, Letture, che pubblica nel mese di marzo una sua valutazione de La dolce vita. L’articolo esprime una valutazione complessivamente positiva del film anche se “è da destinare a visioni limitate o almeno a persone opportunamente preparate“. Come si vede il giudizio si allinea alla posizione espressa inizialmente dal CCC. Nonostante ciò, le reazioni sono furibonde. Su Scena Illustrata ci si stupisce che padre Taddei non capisca che il film raggiunge finalità comuniste. Secondo il giornalista La dolce vita e la stampa che difende la pellicola costituiscono “un ulteriore e efficace contributo a far dilagare il male” in quanto, prosegue, è facile intuire che le masse sono attratte da “dannosi e morbosi compiacimenti“. L’Osservatore Romano rincara la dose affermando che: “Si dice che l’autore di codesta fatica sia un religioso. Ma se ne dicono tante!

Gli attacchi continuano attraverso le massime autorità ecclesiastiche. Al Centro S. Fedele giunge, anche una lettera del cardinal Montini in cui si dice: “sono costretto a deplorare l’esaltazione che il rev. Taddei fa del film La dolce vita. La sua apologia rompe l’argine del nostro popolo alla dilagante immoralità delle scene“. Alla reprimenda fa seguito una chiarificazione che Letture pubblica nel luglio dello stesso anno e i provvedimenti punitivi nei confronti di padre Bressan, direttore del periodico, che viene trasferito e di padre Taddei, spedito all’estero.

Nel frattempo il film è giunto al XIII Festival di Cannes dove è in concorso. La giuria, presieduta da Georges Simenon, lo premia con la Palma d’oro. L’Oscar  per il miglior film straniero va, invece, ad appannaggio di un’opera di Bergman. L’ambita statuetta viene vinta, però, da Piero Gherardi per la migliore scenografia. Tuttavia, l’impatto del film è talmente forte che riesce a modificare il linguaggio facendo entrare nei vocabolari di tutto il mondo neologismi come dolcevita e paparazzo.

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