Interno berlinese. Gelida e vuota rappresentazione della decadenza

Il nostro parere

Interno berlinese (1985) ITA di Liliana Cavani

Liliana Cavani ha rappresentato molto per il cinema italiano di fine anni sessanta e dei settanta. Alcune sue pellicole hanno mostrato il lato oscuro della decadenza borghese, il reticolo psicologico complesso che unisce vittima e carnefice, un’attenta riflessione delle inconfessabili pulsioni dell’animo umano. Dagli anni ottanta in poi ha però smarrito l’aspetto contenutistico con sceneggiature spesso incomplete e vaghe che diventano via via sempre più forzate, gelide e inanimate.

Interno Berlinese prende spunto da un romanzo di Tanizaki e racconta un amore folle tra una giovane giapponese, figlia dell’ambasciatore a Berlino durante il periodo nazista, ed una coppia di sposi appartenenti all’alta borghesia tedesca. I due giovani si lasciano condurre alla follia in un gioco di specchi sadomasochistico in cui non si capisce chi, ad un certo punto, controlla chi cosa. Tuttavia, la ricerca stilistica della regista produce un film asfittico, in cui gli attori si muovono imbarazzati sullo schermo, senza nessuna autenticità e convinzione.

Era forse un tentativo di connotare la decadenza morale e politica come mostrato in Il portiere di notte? Bisogna ammettere che è stato un tentativo fallito.

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