di Gianfranco Angelucci
E’ scomparso Franco Interlenghi, il mitico Moraldo di Fellini, uno dei cinque indimenticabili vitelloni.
Era un attore mite, baciato da un destino dorato: interpretare l’alter ego del regista riminese nel suo film simbolo, “I vitelloni”. Nel ruolo malinconico del fratello di Sandrina (Eleonora Ruffo) messa incinta da Fausto (Franco Fabrizi) il mascalzone della compagnia, era stato impareggiabile, non solo perché credibile in ogni sfumatura ma anche in grado di tener testa agli altri comprimari, Leopoldo Trieste, Riccardo Fellini, e soprattutto Alberto Sordi, già un mostro di bravura, un attore-schermo che rubava la scena a chiunque gli apparisse accanto. Indimenticabile la sequenza a due in cui, al termine del Carnevale festeggiato nel teatro cittadino, all’alba, Moraldo cerca di portare a casa Alberto, completamente ubriaco, che abbraccia barcollante un testone di cartapesta e ha in odio il mondo, disprezzando la vita e per primo se stesso: “Non sei nessuno, non siete nessuno tutti!” Gli occhi, l’espressione del viso di Moraldo, la ‘pietas’ che emana dal suo comportamento, l’ostinata, paziente dolcezza con cui cerca di porgere aiuto all’amico incurante di compromettere l’incontro con una ragazza occasionale che gli si appende al braccio, è un momento di profondo struggimento, di acuta verità, capace di comunicare allo spettatore un incolmabile senso di vuoto.
Per Interlenghi c’era stato un inizio di carriera folgorante, ad appena 15 anni, con “Sciuscià” di Vittorio De Sica, e quindi con l’opera capolavoro di Fellini, Leone d’argento al Festival di Venezia del 1953. Ma nel frattempo aveva interpretato film con Blasetti, Luciano Emmer, Julien Duvivier, Zampa, Camerini, Mario Soldati. E presto sarebbe stato diretto anche da Michelangelo Antonioni (“I vinti”) e in teatro da Luchino Visconti in “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, accanto a Gassman, Mastroianni, Rina Morelli.
Poi la fortuna s’era arrestata lì, il resto della vita si era rivelato in salita. Sosteneva con una punta di rassegnazione, più che di amarezza, che il destino dell’attore era quello di restare incollato al telefono in attesa di una chiamata. Che non arriva mai. Lo affermava sorridendo, impartendo idealmente la lezione di umiltà a sua figlia Antonellina, impaziente, scalpitante nei suoi anni ruggenti. Nella vita privata invece era un uomo invidiabile: aveva sposato una delle attrici più avvenenti dell’epoca, Antonella Lualdi, che gli aveva dato due figlie altrettanto belle, Antonellina e Stella, ben avviate al mestiere dei genitori.
Franco era un buon giocatore di tennis, un mezzo campione; trascorreva sui campi in terra rossa del Club Parioli gran parte della giornata; era la sua maniera di primeggiare e di scaricare le troppe tensioni che lo opprimevano. Quando ci siamo incontrati per il film che stavo girando su “I Protagonisti di Fellini”, era già separato da Antonella Lualdi che, forse un po’ trascurata da lui, aveva finito per accettare la corte serrata, appassionata, dell’innamoratissimo Stelvio Cipriani, compositore di orecchiabili, romantiche colonne sonore cinematografiche. Il suo viso, a poco più di cinquanta anni, era restato quello dell’adolescente di “Sciuscià”, di “Domenica d’agosto”: pulito, fresco, sentimentale, con un velo di incancellabile tristezza nello sguardo. Un amico che ognuno avrebbe desiderato avere al fianco. Moraldo poteva essere soltanto lui.