Il mite fratello minore

di Gianfranco Angelucci

Giuseppe Bertolucci se n’è andato tra il rammarico generale, appartato, in silenzio; in pochi del resto sapevano del suo male, restato nell’ombra fino all’ultimo. Lo scorso anno era uscito da Bompiani il suo libro di ricordi “Cosedadire”, in cui ripercorreva stagioni e personaggi di una vita emozionante, a fianco di un padre poeta, di un fratello celebre regista. Eppure non deve essere facile ritagliarsi il proprio spazio vitale in una famiglia così speciale, apparire invariabilmente all’altezza. Vorrei parlare solo bene di Bertolucci junior, perché vedendolo provavo l’impressione che non fosse stato mai giovane, aveva nello sguardo una malinconia mite, simile a quella delle foche, di certi animali che non trovano il posto, se fuori o dentro l’acqua. Aveva del poeta e del cineasta e pur conoscendo ogni segreto delle due condizioni iscritte nei cromosomi, assorbite nell’aria come il polline, era restato in mezzo al guado. Non lo dico per ingenerosità nei suoi confronti, non parlo del talento, ognuno possiede quel che gli compete; e si sa che non basta, perché bisogna essere capaci di amministrare il proprio orto, di saperne vendere i frutti; una dotazione non di tutti. Bertolucci ‘doppio junior’ aveva persino raggiunto il suo momento di popolarità con “Berlinguer ti voglio bene”, il film che nel ’77 aveva lanciato Roberto Benigni sulla scena cinematografica. L’attore, già Cioni Mario nelle Case del Popolo, era esploso come un missile dalla rampa di lancio; ma l’artefice della messa in orbita era restato alla base, contento di osservarne l’abbagliante fulgore. Un altro ne avrebbe magari approfittato con più furbizia, non Bertolucci junior junior, che secondo me diffidava del cinema proprio perché gli piaceva troppo. Cinefilo al pari del fratello Bernardo, ma indugiando un mezzo passo indietro, come quei frati santi che hanno paura della consacrazione. Mi sono fatto questa idea le poche volte in cui ci siamo incrociati. Nel 1997, anno fatale, mentre io venivo chiamato a dirigere a Rimini l’Associazione Federico Fellini, lui veniva chiamato a Bologna a presiedere la Cineteca, accompagnarne la crescita e il consolidamento istituzionale fino alla nascita di una Fondazione. Se oggi la Cineteca di Bologna è una delle più preziose gemme d’Italia, il merito è anche suo, della passione, del fervore con cui si è applicato all’impresa. Erano gli anni in cui la Regione Emilia Romagna (senza trattino, o tutto o niente) investiva con lungimiranza nel cinema. Aveva sostenuto il mio programma di acquisizioni per salvare molto materiale di Fellini e spalleggiava le iniziative rivolte alla costruzione di un vero polo culturale a Rimini modellato sulla figura del grande Maestro; un progetto che avrebbe potuto esaltare i lineamenti della città se non si fosse arenato nelle consuete beghe di sottopotere. Allo stesso tempo l’amministrazione regionale adottava in pieno la strategia di Gianluca Farinelli per costituire un archivio filmico di prim’ordine nel capoluogo, associato a un’intensa programmazione di sala, come si conviene a una prestigiosa sede universitaria. Per un breve istante mi ero anche illuso che i due percorsi potessero intrecciarsi utilmente; e Bertolucci alla presidenza rendeva verosimile il miraggio. Ma forse Fellini non era il cemento giusto; Giuseppe me ne aveva parlato una volta con un’ammirazione venata di diffidenza; quel cinema ubriacante, ingovernabile, gli restava leggermente tossico. Il fratello minore dei Bertolucci aveva sei anni meno del maggiore e ne mutuava la visione del mondo; con lui aveva cominciato a calcare il set da assistente, passando poi a collaborare ai copioni di storie come “Strategia del ragno” e “Novecento”; riflessioni epocali sui nodi storici nazionali, il fascismo, la resistenza, raccontati con i toni familiari dell’epica e del melodramma. Eleganza borghese e realismo socialista, il main stream degli anni Ottanta. E sullo sfondo la Parma elegante di Stendhal, dove persino oggi, che tutto è cambiato, quando ci metti piede immagini di camminare tra le pagine di un romanzo e di intravvedere in qualche bella passante la duchessa Sanseverina. Fellini, romagnolo, non parlava con la erre blesa e inoltre il suo cinema travalicava ogni giudizio; “La dolce vita” “Otto e mezzo”, riducevano spesso gli altri cineasti a scolaretti nei banchi di scuola, con fiocco e grembiule a compitare l’abbecedario. Insopportabile. Due scuole, due culture, in amorevole contrasto, abili a farsi le fusa ma a coda dritta. Però Giuseppe mi piaceva, perché era un fratello minore simpatico, che non faceva capricci; sapeva aggirarsi in dignitosa compostezza dentro le stanze di una casa troppo grande.

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