Il corteggiatore di Giulietta era un “Grande di Spagna” Vilallonga – Fellini: ho sognato A. Ekberg

di Gianfranco Angelucci

L’aristocratico corteggiatore di Giulietta (degli Spiriti), nella scena del ballo in villa, era un nobile spagnolo dal nome fastoso, José-Luis de Vilallonga y Cabeza de Vaca, nono marchese di Castelvell e Grande di Spagna. Fellini al suo solito lo chiamava con il diminutivo italianizzato, Luigino; e nel 1963 all’uscita di Otto e Mezzo, ormai consacrato genio universale e assalito dai giornalisti di tutto il mondo, aveva acconsentito a incontrarsi con lui per una lunga intervista commissionata da un’agenzia letteraria parigina. Eccola ora riproposta in versione completa sotto il titolo “Ho sognato Anita Ekberg”, con introduzione di Rosita Copioli (Ed. Medusa Polaroid, 15 €).

José era un ben noto playboy internazionale, bon vivant, immancabile animatore nella Roma dorata degli anni ’60, crocevia della mondanità; e aveva già avuto un rapido contatto con il regista durante le riprese della festa dei nobili al Castello di Sutri, memorabile sequenza de La dolce vita, in cui era stato coinvolto per gioco quale esperto maestro di cerimonie.

Un anno dopo, nel 1961, lo spagnolo era divenuto famoso recitando nel ruolo del nobile brasiliano in “Colazione da Tiffany” al fianco di Audrey Hepburn; e proponendosi in veste di scrittore fu accolto con avvolgente familiarità da Federico. Il quale nel libro che gli veniva donato, “L’uomo di sangue”, si imbatté in una superbo aforisma di Ortega y Gassett, che volle telefonare all’istante a Pasolini, perseguitato in quei giorni dalla furia dei tribunali per il suo film La ricotta: “Solo un piccolo numero di persone riesce a intravedere le verità più sostanziali. Se ciò vi irrita, impiccatele pure pubblicamente. Ma non dite che la realtà vera è la vostra e che siamo tutti uguali. Appendetele lealmente dopo aver dichiarato che lo fate perché sono migliori di voi”.

La conversazione con Josè si svolge tra il Caffè Greco, l’abitazione di via Archimede, presente anche Giulietta, e le scorribande nella sua Jaguar per le vie della Capitale fino all’alba, “quando Piazza Navona s’illumina in un colpo solo, come una scenografia teatrale”. Federico stava vivendo il periodo forse più esaltante della propria esistenza, e quindi si abbandona volentieri al flusso dei ricordi: Rimini, l’infanzia (“una specie di sogno costruito per tutta la mia vita”), la famiglia di origine, la scuola, gli incontri magici e sconvolgenti, la Saraghina, il primo amore con Bianchina, il circo, la fuga dal borgo, Roma, gli inizi da giornalista, il fascismo, l’incontro fatale con Giulietta, “una specie di predestinazione”, apparsa per incarnare le sue creature cinematografiche: “Per la prima volta in vita mia incontrai un essere totalmente rassicurante”. E raccontando enuncia senza parere la propria poetica, la visione della vita, il significato dell’arte, il senso più intimo del suo cinema. Nulla di nuovo, o quasi, nella sua mitografia, ma la rievocazione ne rispetta sapientemente la ricchezza verbale e concettuale, le accensioni fantastiche, le profezie, gli smarrimenti.

Perché l’interlocutore è una buona penna, capace di riprodurre il seducente ordito del discorso di un artista che egli nella prefazione definisce “il solo genio autentico che io abbia incontrato nella mia vita”. Ospitato a cena in un appartamento “sobrio e signorile” privo di dozzinali eccentricità (“Fellini convenzionale? Ma via!), si intrattiene fino al momento in cui l’attrice prende congedo e “la stanza, disertata da questa piccola donna che sembra un sogno, diventa all’improvviso spaventosamente vuota”. Federico accenna alle sue visioni: il sogno premonitore dell’incontro con Anita Ekberg; o anche l’apparizione di un angelo che gli tese la mano: “Mica in sogno, nella realtà!” Si sofferma sul rapporto con la Chiesa, la religione, il suono delle campane.

Le parole che adopera per Papa Giovanni XXIII oggi rilucono di singolare attualità: “Per me è un uomo straordinario. Ha messo sottosopra la vecchia baracca che imputridiva tra fasti desueti e rituali polverosi. Il cattolicesimo alla portata di tutti: comprendere è già un predisporsi a tollerare”. E confessa: “Sì, andrò a trovarlo. E’ pur necessario che si senta spalleggiato quest’uomo! Rabbrividisco all’idea di tutta questa gente di destra che prega – con in testa certi cardinali – per la morte del papa”. Rigetta le gratuite accuse di ateismo: “Sono cristiano. Credo alla necessità di Dio. Semplicemente per il fatto che credo nell’uomo. E Dio è l’amore dell’uomo”. L’azzimato José-Luis, ridotto a caricatura nel film sulle inquietudini di Giulietta, ci ha lasciato un documento d’epoca di insospettabile eleganza.

IL SOGNO DI FELLINI

Il 13 ottobre 1966 Fellini annota nel Libro dei Sogni, questa testimonianza che rivela come la figura di Josè de Vilallonga, fisicamente ucciso dalla stessa Giulietta, rappresenti ormai un corpo estraneo e ingombrante di cui disfarsi. Il film Giulietta degli Spiriti era dunque servito a eliminare una sgradevole zavorra nel rapporto segreto tra i due coniugi.

A Londra. Giulietta ha chiuso in una delle nostre valigie il cadavere di Villalonga. Siamo in un grande albergo, ci stanno cambiando di camera, temo che il giovane facchino che indugia accanto al valigione del morto, possa sospettare qualcosa. Giulietta non appare minimamente preoccupata, è lei che ha ucciso Villalonga, ma sembra che abbia del tutto dimenticato la faccenda ed è tutta presa nella sistemazione della nuova camera. La valigia è stata messa nel bagno. Domani si sentirà il fetore del cadavere. Bisogna assolutamente sbarazzarsene. C’è anche Mariolina. Di notte col buio e la nebbia forse potrò tentare di uscire col valigione e gettare il cadavere nel Tamigi, o abbandonarlo in campagna. Faccio un giro attorno all’albergo nella ricerca del ponte più vicino. C’è anche mio padre che vuole aiutarmi. Sono più tranquillo, forse l’operazione è possibile, ma quando voglio tornare in albergo mi accorgo che mi sono smarrito… Domando a qualcuno la strada, ma il tipo che interrogo è di Bologna.  Ora mi sembra che i cadaveri di cui debbo sbarazzarmi siano due. Chi è l’altro?

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