Happy hour

Il nostro parere

Happy Hour (2015) JAP di Ryusuke Hamaguchi


Jun, Sakurako, Fumi e Akari. Quattro donne, quattro amiche, un isolato. Eppure, quando una di loro decide di scomparire a causa di un divorzio nel quale non riesce ad avere successo, la bella coesione comincia a sgretolarsi. Il quartetto divenuto trio non riesce più a ritrovare il baricentro che gli permetteva di sorreggersi. Per non parlare della coesione dei rispettivi nuclei familiari che comincia anch’essa a stentare…


Non è un film facile. Fluviale, lunghissimo (oltre 5 ore) e ipnotizzante nella sua quasi immobilità, Happy hour è un distillato dell’angoscia contemporanea, nascosta sotto una coltre di abitudini che fanno apparire la vita, normale. Eppure dietro questa infinita noia, si annida una ricerca della vita che non è usuale nel cinema.

Il titolo è forse ironico, le scene nel bar sono tutt’altro che “allegra”. Da notare anche che i personaggi molto spesso sono seduti attorno a un drink a confessarsi e a indagare su se stessi e sulle relazioni che vivono.

Siamo in un universo Kore-eda, ma attraverso un approccio ancora più essenziale. Hamaguchi propone un cinema interpretato da attori sconosciuti (in realtà dilettanti incontrati durante un workshop) che ci fa riscoprire freschezza e originalità. Gli attori hanno sicuramente meno frecce al loro arco rispetto ad altri più esperti ma non importa: basta l’effetto della realtà e il loro modo di recitare per sentirsi vicini. Va anche detto che Hamaguchi non si è sbagliato nella scelta delle quattro attrici che avrebbero interpretato il quartetto di amiche. Che il festival di Locarno abbia assegnato il premio per la migliore interpretazione femminile a tutte le attrici è del tutto coerente. Sono tutte sublimi e costituiscono un campione universale di umanità. Fisicamente non sono le attrici perfette che siamo abituati a vedere ma quando iniziano a parlare per condividere i loro sentimenti con gli altri, otteniamo ciò che affascinava Hamaguchi in Cassavetes (suo esplicito riferimento), cioè questa impressione di trovarci di fronte a esseri più reali di quelli che incontriamo nella “vita reale”.

I misteri che compongono gli esseri umani sono infiniti. Qualunque sia la percezione che ne avrà lo spettatore alla fine del film, è comunque molto probabile che un giorno sentirà il desiderio di immergersi nuovamente in questo fermento umano per comprenderne meglio le sfumature.

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