A chiare lettere: il miracolo di Kaurismaki

Di Gianfranco Angelucci

Caro Aki Kaurismaki,

i lettori sanno che nonostante il suono orientaleggiante del suo nome, lei è un regista finlandese, molto amato in patria e, ormai da anni, anche fuori, dove i suoi appassionati si moltiplicano ad ogni nuovo titolo della sua filmografia. In “Miracolo a Le Havre”, una favola sentimentale a metà tra Cesare Zavattini e Frank Capra, si affrontano temi seri e drammatici con il tono della commedia sociale; il genere, ha dichiarato al Festival di Cannes, che lei preferisce.

La leggerezza del tocco è il sigillo della sua limpida arte. Ma ciò che colpisce maggiormente è la semplicità (apparente) del linguaggio che lei adotta, andando decisamente controcorrente. Nel suo stile la macchina da presa quasi non si muove, la vicenda si dipana attraverso un susseguirsi di inquadrature fisse, molto ben composte, corrette al più con impercettibili ‘aggiustamenti’, un termine che nella grammatica del set indica quei piccolissimi movimenti di ‘servizio’, laterali o frontali, che servono a ‘pulire’ l’immagine. Null’altro, neppure una panoramica, neppure uno zoom; in tutta la narrazione viene utilizzato una sola volta il carrello, indispensabile per seguire il passo affrettato del protagonista nel corridoio dell’ospedale in cui viene ricoverata l’amata moglie Arletty. Eppure il racconto procede benissimo, assorbendoci nella vicenda come se fossimo di persona sui posti dell’azione.

Nella stagione di un cinema concitato, super tecnologizzato, affidato a continui effetti speciali, sedotto dal 3D, il suo film è veramente un miracolo; e assistendo allo proiezione ho ripensato a una frase indimenticabile di Fellini: “Il cinema rimane sempre lo stesso, un clown che si muove davanti a un trabiccolo e qualcuno dall’altra parte che gira la manovella.” Il vero autore sa ricondurre lo sguardo alla sua elementarità ed esattezza, il superfluo non essendo altro che panna da cucina (dannosa alla salute) per intorbidire i sapori. Roba da cattivo chef.

Lei, scegliendo Le Havre come uno dei tanti ‘porti delle nebbie’ a cui approdano i disperati in cerca di sopravvivenza che noi chiamiamo clandestini, racconta di un maturo signore, Marcel, che sbarca la giornata facendo il lustrascarpe (‘sciuscià’?); la sera riporta a casa i soldi che la moglie ripone in una scatola di latta dentro la credenza, e in attesa della cena si reca una mezz’ora al bistrot per un bicchiere. In un’altra esistenza era forse uno scrittore, che poi ha preferito cambiare attività per stare in mezzo alla gente comune. Abita in un quartiere povero, ha una cagnetta di nome Laika (con il nome anche nei titoli), è amato dai vicini che all’occorrenza gli fanno credito per la baguette o per la frutta e verdura.

Un giorno, mentre siede sulla scaletta di un molo per la pausa pranzo, gli appare dall’acqua un adolescente nero che è sfuggito alla polizia durante la perquisizione di un container, e crede di trovarsi a Londra. “Londra è dall’altra parte – gli spiega lui – qui siamo a Le Havre. Hai fame?” E gli offre il suo panino; ma il bambino si ritrae tra i piloni del ponte perché è in arrivo un ispettore in cerca dei fuggiaschi. Marcel non lo tradisce, e più tardi torna sul luogo per lasciare sui gradini la busta con il suo pasto. In breve il ragazzino, Idrissa, finisce nascosto a casa sua. I vicini lo sanno e non fiatano, anzi a gara portano cibo per lui. La moglie si ammala di cancro e il dottore dell’ospedale pur non dando speranze la trattiene per la terapia. Marcel, indossato il suo unico abito buono, va in Inghilterra a cercare la famiglia di Idrissa, e quando torna organizza nel quartiere l’esibizione di un vecchio cantante rock per rimediare i soldi del viaggio su un peschereccio compiacente.

L’ispettore ha capito ma finge di non vedere, anzi prima della partenza del barcone sale in coperta e si siede sul pozzo di bordo impedendone agli agenti l’ispezione. Così Idrissa salpa verso la nuova vita. Quando Marcel torna dalla moglie, trova il letto vuoto e teme che Arletty sia morta; invece è viva, è guarita e indossa l’abito giallo che aveva per il loro primo incontro. Rientrando a casa insieme hanno una sorpresa, il ciliegio del piccolo giardino è fiorito sebbene sia pieno inverno. Quel ciliegio fiorito è il regalo di Natale che lei ci fa, con il quale ci insegna prima a ‘guardare’ e poi a onorare degnamente la vita. Che forse è la stessa cosa.

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